Ho sentito freddo

La solitudine è quella cosa che ti fa uscire per strada alla ricerca di facce amiche da incrociare e quattro chiacchiere con un caffè. E quando, poi, esci per strada e le facce sono tutte uguali e nessuna incrocia il tuo sguardo, lì capisci davvero la cifra di ciò che ti sembrava solo un’emozione.
Certi giorni esco di casa senza un motivo e inizio a camminare senza una meta. La direzione non la decido io. Vado, senza sapere dove, facendomi trasportare dal mio passo inquieto. Cerco qualcosa, forse. E senza sapere cosa, puntualmente la trovo.
Come stamattina, che sono uscita per comprare il giornale e ho iniziato a vagare trasportata dai miei passi. Mi sono seduta su una panchina ad osservare le persone e ho visto anziani capaci di incontrarsi e giovani da soli a guardare schermi abbaglianti; bambini correre sotto il sole caldo di Luglio e mamme incapaci di star loro dietro per non inciampare nelle loro gabbie, fatte di tacchi e trucco da non disfare.
Ho sentito freddo. E ho visto la luce di una mattina di luglio diventare buio.
E nel mentre certe emozioni si facevano spazio per invadermi, mi sono alzata di scatto, ho camminato fino all’uscio della Chiesa e sono entrata.
Quando varchi la soglia di una Chiesa il silenzio diventa un abbraccio. Ti si avvinghia addosso e ti immobilizza e diventa un amico con il quale incrociare lo sguardo.
Poi, a volte, il silenzio lascia il posto alla gioia. E la gioia fa chiasso. E il chiasso ha una forza ammaliante.
E stamattina il chiasso si teneva per mano. Era come una catena, i cui anelli si susseguono agganciati gli uni agli altri, con i due capi che ricongiungono un cerchio di amore.
Un ragazzo elegante e una ragazza vestita di bianco erano sull’altare.
Erano felici e lo erano anche tutte le persone che riempivano i banchi ed erano lì per loro. Sembravano emozionati e sorridevano, tra le acconciature e gli abiti eleganti pensati apposta per l’occasione. Quando la cerimonia è finita, c’è stato un grande applauso che ha riempito la Chiesa di un boato invadente e pieno: saturo di quell’energia che ognuno di loro ha liberato attraverso il ricongiungere frettolosamente le mani: un gesto apparentemente meccanico, ma che sprigiona la forza, le paure, le emozioni.
Io ero lì, estranea in mezzo ad una tribù, seduta tra gli ultimi banchi. E mentre osservavo quell’energia e provavo a catturarne gli attimi, una voce tremante ha spezzato l’incanto e ha zittito la folla. Con un fare leggero ha intonato un canto d’amore e nostalgia: il canto di un nonno che lascia la nipote alle cure di un uomo nuovo, concretizzando quell’attimo con parole che attraverso il canto diventano ancora più potenti e vive. Sembrava un canto antico, un’Ave Maria che aveva il sapore autentico della tradizione e che, intervallato da singhiozzi e applausi, ha immobilizzato i corpi e alleggerito gli animi. Un’immagine d’altri tempi, una sorta di flashback nella realtà. Una di quelle scene che ti fanno vedere il passato e ti ci catapultano dentro per farti tornare nel presente e darti la cifra di quanto sia importante esserci. Essere presenti, per sé stessi e per gli altri. Tornare ad essere, fare ciò che sentiamo senza filtri vintage che ripropongano il passato, ma con i valori rinnovati di un presente che troppo spesso si spoglia dell’essenza per calcare palcoscenici che non hanno più sguardi attenti da incrociare.

E.G.

[Illustrazione di Gianni de Conno]

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