La vita bugiarda degli adulti – di Elena Ferrante

La vita bugiarda degli adulti

Il 7 Novembre, data di uscita del nuovo libro di Elena Ferrante, mi sono catapultata in libreria per riuscire ad averlo subito in mano, con la stessa smania con cui si aspetta un regalo o un desiderio tanto atteso.

Che strano. Io che non mi faccio mai incantare dalle mode e che non corro mai dietro a ciò che riunisce le folle esagitate, mi sono ritrovata ad aspettare quel giorno con ansia e a fare una di quelle cose che mai avrei immaginato di fare.

Eppure l’ho fatto. E se l’ho fatto è perché Elena Ferrante, e la #ferrantefever, hanno fatto ancora breccia nel mio cuore, nelle mie attese, nel mio desiderio di immergermi ancora nella Napoli dei rioni scuri che fanno da contrasto alla luce immensa del Golfo, da guardare dai quartieri bene di una città che o si ama o si odia.

De “L’amica geniale” non ho mai scritto nulla. Quando lo lessi, nel 2015, rimasi travolta dalle emozioni e non fui capace di sbrogliare, dentro di me, la matassa di una storia incredibile.

Questa volta, invece, le emozioni sono state una sorta di ritorno al passato: come un flashback che, a intermittenza, si presentava a distrarmi dalla storia attuale, facendomi tornare alle immagini di quella Napoli, di quel rione, di quella storia.  

La vita bugiarda degli adulti

“Due anni prima di andarsene di casa mio padre disse a mia madre che ero molto brutta. La frase fu pronunciata sottovoce, nell’appartamento che, appena sposati, i miei genitori avevano acquistato al Rione Alto, in cima a San Giacomo dei Capri. Tutto – gli spazi di Napoli, la luce blu di un febbraio gelido, quelle parole – è rimasto fermo. Io invece sono scivolata via e continuo a scivolare anche adesso, dentro queste righe che vogliono darmi una storia mentre in effetti non sono niente, niente di mio, niente che sia davvero cominciato o sia davvero arrivato a compimento: solo un garbuglio che nessuno, nemmeno chi in questo momento sta scrivendo, sa se contiene il filo giusto di un racconto o è soltanto un dolore arruffato, senza redenzione…”

Inizia cosi la storia di Giannina. Una storia che promette subito di farci entrare in un perimetro familiare: se non nella dimensione dello spazio, certamente in quella delle emozioni e della certezza di essere già immersi  dentro ad una nuova storia che sa come catturare il lettore.

È vero: io, all’inizio, non riuscivo a togliermi dalla testa l’immagine di Lila e Lenù.

Entrambe si alternavano davanti ai mie occhi: un po’ una, un po’ l’altra, un po’ la “buona”, un po’ la “cattiva”.

Poi, man mano che andavo avanti,  Lila e Lenù si sono materializzate in un’unica persona.

Giovanna, o Giannina, è un po’ la trasfigurazione di due personaggi, mescolati insieme, che resistono alla nuova storia come due fantasmi che non hanno alcuna voglia di abbandonare la loro casa. Una casa/scrigno, quella della Ferrante, che del mistero sa farne una sorta di liberazione dell’anima dai fardelli delle convenzioni e delle apparenze.

Con Giannina si condensano due teste, due anime, due pensieri: si riassume un percorso,  che assomiglia all’oscuro e controverso dibattito che accompagna il cammino dell’uomo, che richiede un’attenzione profonda alle domande che si pone e che sono, quasi sempre, domande le cui risposte appaiono cristallizzate in una  cornice fatta di finzioni e di schemi precostituiti entro i quali rimanere ancorati: di cose da fare e cose da dire.

Ma Giannina non ci sta, e prova a smontare quell’universo di cristallo dentro il quale ha vissuto fino ai suoi 12 anni e che comincia a starle stretto perché, di colpo, suo padre – il suo mito, il suo protettore, il suo complice più dolce -, le spiattella in faccia, con veemenza, la più triste delle verità: le presenta il conto di una vita fatta di menzogne e lo fa ribaltando totalmente uno dei punti fermi della sua esistenza:

«Ho amato molto mio padre, era un uomo sempre gentile. (…) Mi si rivolgeva in ogni occasione con un piglio allegro, qualunque fosse il suo umore o il mio, e non si chiudeva nello studio – studiava sempre – se non mi strappava almeno un sorriso. Gli davano gioia soprattutto i miei capelli, ma mi è difficile dire, adesso, quando cominciò a lodarmeli, forse già quando avevo due o tre anni. Di certo, durante la mia infanzia, facevamo conversazioni di questo tipo:

“Che bei capelli, che qualità, che luce, me li regali?”

(…)

“Se vuoi te li posso prestare”

“Va benissimo, tanto non te li restituisco più”

“Hai già i tuoi”

“Quelli che ho li ho presi a te”»

Dunque, fino a quel momento, era esistito un mantra che  aveva dato una forma a quel rapporto fatto di coccole, di amore, di complimenti e di “la più bella sei tu”, che aveva costituito, per Giannina, un terreno bello fertile dove piantare la propria crescita e renderla forte.  Un mantra che si era, però, rovinosamente interrotto quel giorno: quel giorno che era diventato la fine e l’inizio di molte cose.

 Studiavo fino allo stremo, ma i risultati continuavano ad essere deludenti. Quel pomeriggio, in particolare, mia madre era andata a parlare con gli insegnanti ed era tornata molto dispiaciuta. Non mi aveva rimproverata, i miei genitori non mi rimproveravano mai. Si era limitata a dire la più scontenta è la professoressa di matematica, ma mi ha detto che se vuoi ce la puoi fare. Poi se ne era andata in cucina a preparare la cena e intanto era rientrato mio padre. Dalla mia stanza sentii solo che gli stava riassumendo le lagne dei professori, capii che per giustificarmi tirava in ballo i cambiamenti della prima adolescenza. Ma lui la interruppe e con una delle sue tonalità che con me non usava  mai -persino una concessione al dialetto, del tutto proibito in casa nostra -sì lascio uscire di bocca ciò che sicuramente non avrebbe voluto che gli uscisse: “l’adolescenza non c’entra: sta facendo la faccia di Vittoria”.

Sta facendo la faccia di Vittoria.

Una frase, quella appena citata, in cui c’è il sunto di tutta la storia.

Perché Vittoria non è altro che la rappresentazione di quella parte di umanità che, nonostante i bassifondi dai quali proviene, riesce a vivere una vita autentica: fatta di molte cose brutte e poche cose belle, ma certamente vere in tutta la loro potente intensità.

Vittoria è il mentore, è il punto di passaggio, il momento della consapevolezza che darà a Giannina lo spunto per acquisire un punto di vista differente, che le farà guardare alle cose di sempre con occhi nuovi, facendole scoprire “la vita bugiarda degli adulti

Un punto di partenza che trova, poi, inevitabilmente, altri spazi, altri spiragli da cui osservare angolazioni nuove del mondo e degli uomini.

Una osservazione che si fa quasi ossessione e che Giannina non smetterà più di scomporre e approfondire, modificando, di volta in volta, il suo sguardo e la sua analisi, a seconda delle situazioni e delle scene che si ritrova a vivere e a recepire in maniera più o meno lucida.

Ci saranno molti personaggi a farle cambiare idea: Tonino, Corrado, Roberto, Rosario, Angela, Giuliana, Ida: sono tutti specchi nei quali Giannina si guarda e si cerca, e che, di riflesso, le ribaltano domande dalle quali non sempre sa come districarsi.

“Quando ti obbligano a fare cose che non vuoi e obbedisci, peggiora la testa. Peggiora tutto.”

“Lobbedienza è una malattia della pelle?”

Mi guardò per un attimo perplesso, sorrise:

“Brava, è proprio così una malattia della pelle. E tu sei una buona cura, non cambiare, di’ sempre quello che ti viene in mente. Altri due chiacchiere con te e scommetto che miglioro“.

Dissi di impeto:

“Voglio migliorare anch’io. Cosa devo fare?”

Il prete rispose:

“Cacciare via la superbia, che è sempre in agguato”.

“E poi?”

“Trattare gli altri con bontà e senso di giustizia”.

“E poi?”

“Poi c’è la cosa che alla tua età è la più difficile: onorare il padre e la madre. Ma ci devi provare, Gianni’, è importante”

“Il padre e la madre non li capisco più”

 “Li capirai da grande.”

Mi dicevano tutti che avrei capito da grande. Risposi:

“Allora non diventerò grande”.

Ci salutammo alla funicolare e da allora non l’ho più rivisto. Non osai fare domande su Roberto, non chiesi se Vittoria gli aveva parlato di me, se gli aveva raccontato i fatti di casa mia. Dissi solo, vergognandomi:

“Mi sento brutta, di cattivo carattere, e tuttavia vorrei essere amata”.

Ma lo dissi tardi, in un soffio, quando lui già mi dava le spalle.

La sua trasformazione verso il mondo adulto avviene grazie alla capacità di Don Giacomo, prima, e di Roberto, poi, di averle insinuato il dubbio della riflessione profonda delle cose: il dubbio che la vita ci mette spesso di fronte a delle scelte che, pur controvoglia, è necessario accettare per poter compiere il passo successivo.

E il passo successivo, inevitabilmente, diventa il bisogno di ripartire da una nuova Giannina: libera da tutti i fardelli che zavorrano il suo essere cresciuta in una casa dove per molti anni erano stati professati i valori alti della vita, ma praticate le più ingenue e primitive bassezze, irrimediabilmente distanti dai discorsi esibiti teatralmente.

Emanuela Gioia

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