In un mondo nuovo con un nuovo sguardo.

Foto by Oscar Keys – Unsplash

Siamo diventati un mondo in attesa.

In attesa di uscire, in attesa di ricominciare, in attesa di una nuova vita che ci faccia ripartire con il piede giusto.

È un’attesa che toglie il fiato e mette persino paura: perché le domande sono troppe e le risposte troppo poche. Ci sono ipotesi e complotti, litigi e notizie a metà, sentenze che somigliano a soluzioni: ma risposte vere no. Quelle nessuno è in grado di darle. Così ognuno si attacca dove può, dove sa di potersi sentire al sicuro, dove sa di poter trovare quelle verità che più gli fanno comodo.

Il punto, dopo quasi due mesi di quarantena, è proprio questo. Un punto da cui poter ripartire o che, più verosimilmente, ci tiene immobili in una soluzione che, di fatto, non lo è, ma ne è soltanto l’ombra. Una soluzione che dipende dal punto di vista di ognuno di noi, dal nostro sentire, dalla percezione che ognuno ha delle cose del mondo. Una percezione che, veicolata dalla nostra dimensione, si infila tra le dimensioni più grandi e si accomoda dove trova certezze.

Così è. O forse così ci sembra che sia.

Io la mia certezza l’ho trovata in ciò che già sapevo. E oggi lo posso dire con la consapevolezza di chi da sempre ha provato ad accomodarsi dove credeva di trovare risposte e poi, inevitabilmente, ha sempre trovato dubbi, imbarazzo, difficoltà, disorientamento.

La mia certezza è che non bramo affatto un ritorno là fuori. Questo mondo mi fa sempre più paura e di soluzioni non me ne dà nemmeno una.

Il vaso di Pandora, che giaceva latente in ogni mezza verità, si è completamente scoperchiato lasciando la speranza ancora più in fondo, immobile e inerme. Questa è la mia sensazione.

In questi due mesi ho sognato un mondo migliore e ho sperato di tornare là fuori, ma nel frattempo ho capito molte più cose:

Ho capito che si può amare il silenzio;

Ho capito che il rumore assordante che c’è lì fuori è solo un deterrente ai pensieri e alle emozioni autentiche;

Ho capito che si può essere insieme pur rimanendo da soli, perché “insieme” è un sentimento e non una condizione;

Ho capito che bastarsi è l’unico modo per salvarsi: bastarsi per ciò che si è davvero e per ciò che si possiede, al di là della ricchezza materiale.

Ho capito che tutto ciò che abbiamo intorno può esserci, e avere senso, solo se abbiamo un perno su cui farlo ruotare;

Ho capito che riprogrammare lo sguardo e i sentimenti è un modo per vincere la paura di ciò che conosciamo e che ci sta stretto, ma anche di ciò che non conosciamo.

Riprogrammare tutto per ricominciare.

Ci vorrebbe un mondo nuovo.

Un mondo in cui la felicità fosse esattamente il contrario della distopia ipotizzata da Huxley nel suo “Mondo Nuovo” e che oggi appare come l’unica possibile: «Questo è il segreto della felicità e della virtù: amare ciò che si deve amare. Ogni condizionamento mira a ciò: fare in modo che la gente ami la sua inevitabile destinazione sociale».

Una distopia che, a tratti, si presenta come la panacea di tutti i mali: nessuno si accorge delle differenze sociali, nessuno si accorge delle distanze tra gli individui, nessuno si accorge di quanto la guerra individuale, e individualistica, sia diventata l’unica da combattere per salvarsi dagli altri e, soprattutto, da sé stessi.

Nessuno se ne accorge e tutti stanno bene.

Abbiamo apparentemente tutto ciò che vogliamo, ma non conosciamo noi stessi e non sappiamo distinguere i nostri bisogni e i nostri desideri: li confondiamo con ciò che ci hanno imposto e abbiamo smesso persino di cercarli, convinti di avere già tutto ciò di cui necessitiamo. Le emozioni e i sentimenti vengono sempre dopo. Ciò che conta è assecondare quel benessere fittizio che equivale al possesso di cose e alla brama di moltiplicarne esclusivamente il numero.

E se qualcosa va storto? Niente paura: basta una pillola, un vaccino, un palliativo momentaneo e tutto torna ad essere come, o meglio, di prima.

Come? Grazie a chi detiene il potere della manipolazione degli individui e stabilisce le regole in virtù della convalida di quella felicità che è l’obiettivo primario: che poi sia una felicità reale o fittizia, o persino indotta, quella è un’altra questione.

E allora, ben venga l’attesa di cui ci stiamo nutrendo in questi giorni: che sia un’attesa simile ad un risveglio, ad un nuovo ossigeno che rimetta in moto i neuroni dei sentimenti e delle emozioni autentiche; che sia il disintossicarsi da certe “sostanze” che quel vociare continuo e perenne, che circola indisturbato su ogni mezzo, ci inietta come verità assolute in un disordine che distrugge i pensieri e li relega nell’angolo della rassegnazione; che sia davvero quel momento in cui ci si ferma per guardare bene oltre e fare il balzo in avanti che tutti ci meritiamo.

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