DALLE LANGHE A BRANCALEONE. Cesare Pavese, la Calabria e il confino dell’anima

Cesare Pavese in Calabria

Tante volte mi ero ripromessa di andarci a Brancaleone.

Tantissime volte, da quando, durante i miei studi universitari, avevo scoperto che Cesare Pavese aveva trascorso in quei luoghi, sulle rive del mar Jonio, sette lunghissimi mesi di solitudine forzata alla ricerca di una consolazione che gli facesse accogliere quella che, in cuor suo, sapeva essere un’ingiustizia.

Fin da allora avevo sentito forte il richiamo di andare a respirarli quei luoghi e quella stanza, fatta di poco, nella quale la sensibilità di un uomo fragile e insofferente aveva iniziato a prendere le sembianze di tutto quel bello di cui noi, oggi, possiamo usufruire.

Su Pavese avrei dovuto scrivere la mia tesi di laurea, ma poi, per questioni “burocratiche” – avevo una certa fretta di completare il mio ciclo di studi e non c’erano professori disponibili a seguirmi su quell’argomento – sono stata costretta a rinunciare.  Pertanto, anche la visita a Brancaleone è passata in cavalleria.

Poi, un giorno, dopo qualche anno, mi sono ritrovata sulle colline di Santo Stefano Belbo, spinta ancora da quel bisogno di inseguire le tracce di quell’anima inquieta che proprio qui, in questo meraviglioso angolo delle Langhe piemontesi, aveva respirato e osservato, per la prima volta, il mondo.

Un po’ per sbaglio, un po’ per destino, Cesare nacque, infatti, nella cascina di San Sebastiano, dove la famiglia trascorreva l’estate, il 9 settembre del 1908.

La famiglia di Cesare viveva a Torino, la città dove lui visse e studiò e forgiò la sua anima e il suo essere sensibile, ma le colline delle Langhe, rappresentarono, per lui, il luogo dell’anima, quello dove si torna per ritrovarsi e per ritrovare quelle radici dalle quali non è possibile sottrarsi, nemmeno quando se ne sta distanti.

Pavese antifascista

Pavese in Calabria
Pavese 1935 – foto presa dal web

Il 13 Maggio 1935 circa duecento intellettuali antifascisti vengono fermati dalla polizia fascista. Tra questi c’è anche Cesare Pavese e tutta la redazione della rivista La Cultura. La polizia fa irruzione nell’appartamento di Pavese e trova alcune lettere di Altiero Spinelli. Tanto basta per essere accusato di essere un antifascista e di avere collegamenti con il movimento Giustizia e libertà e, per questo, arrestato e condannato a tre anni di confino a Brancaleone, in Calabria.

Pavese non aveva molti collegamenti con la politica. Non era un attivista, ma frequentava l’ambiente intellettuale antifascista che lo esponeva a molti rischi. Le motivazioni presunte della condizione che lo porterà ad essere arrestato presentano più di una versione e vengono raccontate dai critici in maniera diversa e a volte contraddittoria.

Quella più diffusa vede Pavese che sacrifica la sua incolumità per proteggere Tina Pizzardo, la donna di cui era profondamente innamorato, a cui appartenevano le lettere scambiate con Altiero Spinelli e che lui custodiva a casa sua proprio per salvaguardare lei, accettando di farsi arrestare pur senza alcuna colpa.

Quello che è sicuro è che Pavese non aveva nulla a che fare con la militanza politica, tanto che quando fu il momento di chiedere la grazia al regime fascista per ridurre la sua pena, non ci pensò due volte.

Brancaleone

Pavese arriva a Brancaleone il 4 Agosto 1935, in un caldo pomeriggio estivo, e la prima cosa che scorge, appena sceso dal treno, sono gli occhi curiosi dei paesani che, riuniti al bar Roma a condividere la calura e il tempo lento dell’estate a Sud, lo osservano mentre in manette raggiunge la caserma dei carabinieri, accompagnato dal maresciallo.

Cesare ha 27 anni e il primo impatto con quei luoghi fuori dal mondo gli provoca un senso di spaesamento, che descriverà anche ne Il carcere, il romanzo ispirato proprio all’esperienza del confino, in cui scrive:

Per qualche giorno Stefano studiò le siepi di fichidindia e lo scolorito orizzonte marino come strane realtà di cui, che fossero invisibili parete d’una cella, era il lato più naturale. Stefano accettò fin dall’inizio senza sforzo questa chiusura d’orizzonte che è il confino: per lui che usciva dal carcere era la libertà. Inoltre sapeva che dappertutto è paese, e le occhiate incuriosite e caute delle persone lo rassicuravano sulla loro simpatia.

Un senso di spaesamento iniziale che si accompagna ad una attenta osservazione di quei luoghi e di quelle persone che, fin da subito, riconosce nel loro animo accogliente e, per certi versi, clemente nei suoi confronti, nonostante la sua condizione di “straniero” in terra d’altri. Li descriverà così, infatti, in una delle prime lettere scritte da Brancaleone e indirizzate alla sorella Maria:

Qui ho trovato una grande accoglienza. Brave persone, abituate a peggio, cercano in tutti i modi di tenermi buono e caro. (…) Che qui siano sporchi è una leggenda. Sono cotti dal sole. Le donne si pettinano in strada, ma viceversa tutti fanno il bagno.

L’ambiente non era per nulla ostile, dunque, e anzi furono molte le situazioni in cui Pavese ebbe la possibilità di sentirsi completamente a suo agio, grazie a momenti di scambio culturale con intellettuali socialisti e antifascisti del posto con cui capitava di condividere piacevoli serate estive e inviti a cena, in cui riconobbe quel senso di ospitalità e accoglienza tipico della gente del Sud, la cui origine è rintracciabile, in maniera evidente, nella antica xenia (ξενία) di matrice greca.

Nella prima lettera all’amico e maestro Augusto Monti, datata 11 Settembre 1935, Pavese scrive: “Qui i paesani mi hanno accolto molto umanamente, spiegandomi che del resto si tratta di una loro tradizione e che fanno così con tutti.” Una affermazione di cui, evidentemente, non ha ancora contezza, ma che imparerà a riconoscere e a interiorizzare e che, ad un certo punto, riconoscerà in maniera chiara, come scriverà il 27 Dicembre alla sorella Maria in quella che lui stesso definirà “la lettera della serenità”:

La gente di questi paesi è di un tatto e di una cortesia che hanno una sola spiegazione: qui una volta la civiltà era greca. Persino le donne che, a vedermi disteso in un campo come un morto, dicono «Este u’ confinatu», lo fanno con una tale cadenza ellenica che io mi immagino di essere Ibico e sono bell’e contento.  

Ibico, se vi interessa, è un lirico corale del VI secolo a.C., nato proprio qui nel Reggino. (…) Non bisogna dimenticare che costui girava, come un’anima persa, Magna Grecia e isole, per amore della pagnotta, che allora si chiamava ospitalità. Ebbene, ancora adesso questa gente è tale e quale e (…) l’ospitalità è intatta. Fa piacere leggere la poesia greca in terre dove, a parte le infiltrazioni medioevali, tutto ricorda il tempo che le ragazze υδρευούσαι si piantavano l’anfora in testa e tornavano a casa a passo di cratére. E dato che il passato greco si presenta attualmente come rovina sterile – una colonna spezzata, un frammento di poesia, un appellativo senza significato – niente è più greco di queste regioni abbandonate. I colori della campagna sono greci. Rocce gialle o rosse, verdechiaro di fichindiano e agavi, rosa di leandri e geranî, a fasci dappertutto, nei campi e lungo la ferrata, e colline spelacchiate brunoliva. (…)

Il confino come specchio dell’anima

Pavese in Calabria
Casa del confino a Brancaleone-
foto presa dal web

L’esperienza del confino in Calabria fu percepita per molto tempo come un evento quasi insignificante e di poco conto nella vita umana e professionale di Pavese. Inizialmente, infatti, molti critici sembrarono unanimi nel mettere in evidenza principalmente tutte quelle sfumature, legate alle testimonianze dirette che Pavese ci ha lasciato grazie alle lettere scritte da Brancaleone e a quello che è stato definito «journal de l’oeuvre» che è il Mestiere di vivere, in cui sembra prevalere un sentimento di straniamento e malinconia causato, apparentemente, da quella permanenza forzata in un luogo tanto distante dalle sue abitudini.

Ma quella della solitudine e della malinconia scaturite dalla condizione di confinato, e dall’essere confinato proprio lì, in quei luoghi dimenticati da Dio e dagli uomini, è una narrazione parziale che pecca di superficialità. Una superficialità che, a ben vedere, può essere facilmente svelata leggendo le lettere precedenti al periodo del confino, in cui quei sentimenti sono già riscontrabili. E questo perché certi sentimenti, così come certe modalità a volte persino irriverenti, che lambiscono un apparente disprezzo, fanno parte di Pavese e del suo carattere. Leggendo le lettere che precedono di molto i sette mesi di confino, gli atteggiamenti che si susseguono e si avvicendano sono a volte di leggerezza, altre volte di sorrisi, altre volte di tenerezza. Tutti atteggiamenti dietro cui si può scorgere, leggendo bene tra le righe, una tristezza di fondo che non è necessariamente disperazione o sconforto, quanto una sorta di dimensione mentale attraverso cui accogliere la vita e il mondo intorno a sé, che Pavese spesso prova a celare dietro quell’ironia, a volte tagliente e dissacrante, tipica piemontese.

Il momento del confino è, invece, quello che si può definire una sorta di punto di svolta.

A Brancaleone Pavese è malinconico e solitario, ma non più di quanto è solito essere, come scrive il 17 Settembre in una lettera indirizzata a Tina Pizzardo:

passo le giornate (gli anni) in quello stato d’attesa che a casa provavo certi pomeriggi dalle due e mezzo alle tre. Sempre, come il primo giorno, mi sveglia al mattino la puntura della solitudine.

Pavese al confino
Pavese al confino – foto presa dal web

In Calabria, però, quella solitudine diventa una solitudine feconda che, attraverso le riflessioni scaturite proprio da quel senso di immobilità dettato dal suo essere confinato, determinerà uno snodo importante per la sua produzione letteraria.

Fino a quel momento Pavese aveva subìto quella condizione di solitudine, che considerava l’unica possibile per sottrarsi alle falsità sociali e legata, in qualche modo, ad un atteggiamento passivo rispetto alle cose che gli accadevano, compreso quel rimanere legato ad un amore palesemente non corrisposto. Una solitudine più che altro mentale, che si ribalta nel momento in cui, nel suo stato di confinato politico, si ritrova anche in una solitudine fisica che, in quanto nuova come condizione, lo avvicina anche ad un nuovo modo di riflettere e di maturare nuovi pensieri. Un isolamento che diventa un modo per uscire da quella stasi mentale che lo aveva schiacciato per molto tempo anche nella produzione letteraria, come scriverà lui stesso il 6 Ottobre 1935, proprio in apertura de Il mestiere di vivere, il suo«journal de l’oeuvre»:

Che qualcuna delle ultime poesie sia convincente, non toglie importanza al fatto che le compongo con sempre maggiore indifferenza e riluttanza. Nemmeno importa molto che la gioia inventiva mi riesca qualche volta oltremodo acuta. Le due cose, messe insieme, si spiegano con l’acquisita disinvoltura metrica, che toglie il gusto di scavare da un materiale informe, e insieme interessi miei di vita pratica che aggiungono un’esaltazione passionale alla meditazione su certune poesie.

Conta invece questo, che sempre più inutile e indegno mi pare lo sforzo; e più feconda che non l’insistenza su queste corde, la ricerca, da tanto concepita, di nuove cose da dire e quindi nuove forme da foggiare. Poiché la tensione alla poesia è data al suo inizio dall’ansia di realtà spirituali ignote, presentite come possibili. (…)

Già ne Il mestiere di poeta, uno studio scritto nel Novembre del 1934 e pubblicato in appendice alla seconda edizione di Lavorare Stanca, Pavese riflette sul suo blocco creativo e sulla necessità di incoraggiare la sua opera con un cambio di registro che potesse, in qualche modo, farle riprendere vigore e portarla sulla strada della maturità. L’occasione per questo cambio di registro gli fu offerta proprio dal confino.

(…) le poesie stanche, o poesie-conclusione, sono forse le piú belle del mazzo, e il tedio che accompagna la loro composizione non è gran che diverso da quello che apre un nuovo orizzonte. Per esempio, Semplicità e Lo steddazzu (inverno 1935-36) le hai composte con inenarrabile noia e, forse proprio per sfuggire alla noia, tratteggiate in modo cosí bravo e allusivo che piú tardi a rileggerle ti sono parse pregne di avvenire. Il criterio psicologico del tedio non è quindi sufficiente a segnare il trapasso a un nuovo gruppo, dato che la noia, l’insoddisfazione, è la molla prima di qualunque scoperta poetica, piccola o grande.

Il cambio di registro narrativo inizia già con le prime poesie scritte a Brancaleone. Sono 16, di cui 5 faranno in tempo ad essere inserite nella prima edizione di Lavorare Stanca, pubblicata nel 1936, mentre Pavese stava scontando il periodo di confino a Brancaleone, quasi a voler determinare un cambio di pagina proprio da quel momento in poi. Fino a quel momento la pubblicazione era stata rimandata più volte, bloccata da quel senso di inadeguatezza in cui Pavese era ormai immerso e che non gli permetteva di concludere ciò che continuava a sembrargli incompleto ma che, allo stesso tempo, non era più capace di completare.

Il periodo del confino permette a Pavese di concentrarsi in maniera ampia e approfondita sulla propria poetica e di individuarne i punti che non gli consentono più di esprimersi in maniera autentica.

Non a caso inizia a scrivere Il Mestiere di vivere proprio a Brancaleone, esattamente dopo 2 mesi dal suo arrivo, mesi in cui, evidentemente, aveva avuto modo di acquisire nuova materia e nuove esperienze che non potevano più rispondere a quel modo di fare letteratura, ma necessitavano di una nuova cifra stilistica:

Comunque, c’era un tempo che avevo ben vivo nella mente un ammasso passionale e semplicissimo di materia, sostanza della mia esperienza, da ridurre a chiarezza e determinazione organiche nel poetare. E ogni mio tentativo, sottilmente ma inevitabilmente, si riconnetteva a questo fondo e mai mi parve di sviarmi per stravagante che fosse il nucleo di ogni nuova poesia. Sentivo di comporre qualcosa, che superava sempre il pezzo (del momento) (attuale). Venne il giorno che l’ammasso vitale fu tutto assunto nell’opera, e mi parve di non lavorare più che di ritagli o di sofisticare. Tant’è vero che – e meglio me ne accorsi quando volli chiarirmi in uno studio il lavoro compiuto – scusavo ora le ulteriori ricerche della mia poesia come applicazioni di una consapevole tecnica dello stato d’animo e facevo invece una poesia-gioco della mia vocazione poetica. (…)

A questo senso di involuzione posso rispondere che invano ormai cercherò in me un nuovo punto di partenza. Dal giorno dei Mari del Sud, in cui la prima volta espressi me stesso in forma recisa e assoluta, cominciai a costruire una persona spirituale che non potrò mai piú scientemente sostituire, pena la negazione sua e la messa in questione di ogni mio futuro ipotetico slancio. (…) Ma perché, in quel modo che sinora mi sono limitato come per capriccio alla sola poesia in versi, non tento mai un altro genere? La risposta è una sola e forse insufficiente: per ragioni di cultura, di sentimento, di abitudine ormai e non per capriccio, non so uscire dal sentiero, e mi parrebbe dilettantesco il colpo di testa di mutare la forma per rinnovare la sostanza.

La rivelazione del mito

Il passaggio dalla poesia alla prosa diventerà definitivo “alla fine del dolore”, proprio come aveva intuito un mese prima di ottenere lo sconto di pena. Bisognerà aspettare infatti qualche anno prima che Pavese scriva la sua prima opera narrativa, quando, ormai distante da Brancaleone, non vivrà più il sentimento misto e frammentato di amore e odio per quei luoghi, ma ne ricorderà solo i momenti belli e le belle sensazioni scaturite dalle riflessioni profonde attuate proprio a quelle latitudini. Solo quando ne sarà distante, infatti, sarà in grado di trasferirli ne Il carcere, la cui storia,scritta nel 1939, è ispirata proprio a quei sette mesi trascorsi a Brancaleone e segna il passaggio definitivo dalla poesia alla prosa che diventerà, poi, la forma espressiva di tutta l’opera di Pavese.

Cadono in questi mesi molti valori del passato e si distruggono abitudini interiori, che – straordinaria fortuna – nulla per ora sostituisce. Debbo imparare a prendere questa rovina futile, questa faticosa inutilità come un benedetto dono – quale ne hanno soltanto i poeti – come un tendone davanti alla rappresentazione che dovrà poi ricominciare. Mi spiego. Ritorno a uno stato larvale d’infanzia, meglio d’immaturità, con tutte le rozzezze e le disperazioni del periodo. Ritorno l’uomo che non ha ancora scritto Lavorare stanca. Passare ore a rosicchiarmi le unghie, a disperare degli uomini, a disprezzare luce e natura, a temere per paure infantili e pure atroci, è un ritorno ai miei vent’anni. Quale mondo giaccia di là di questo mare non so, ma ogni mare ha l’altra riva, e arriverò. Mi disgusto ora della vita per poterla assaporare un’altra volta. (…)

Però – che lo sappia – la nuova opera comincerà soltanto alla fine del dolore.

E la scoperta del mito, incarnato in quei luoghi e nelle persone e nelle immagini che diventano simbolo, diventa la scintilla di un nuovo fuoco che ne alimenterà i contenuti.

Una scintilla scaturita da una nuova consapevolezza che parte da questa riflessione di cui lascia traccia ne Il mestiere di vivere:

Questa sera, sotto le rocce rosse lunari, pensavo come sarebbe di una grande poesia mostrare il dio incarnato in questo luogo, con tutte le allusioni d’immagini che simile tratto consentirebbe. Subito mi sorprese la coscienza che questo dio non c’è, che io lo so, ne sono convinto, e quindi altri avrebbe potuto fare questa poesia, non io. […].

Perché non posso trattare io delle rocce rosse lunari? Ma perché esse non riflettono nulla di mio, tranne uno scarno turbamento paesistico, quale non dovrebbe mai giustificare una poesia. Se queste rocce fossero in Piemonte, saprei bene però assorbirle in un’immagine e dar loro significato. Che viene a dire come il primo fondamento della poesia sia l’oscura coscienza del valore dei rapporti, quelli biologici magari, che già vivono una larvale vita d’immagine nella coscienza prepoetica.

Certamente dev’essere possibile, anche per me, far poesia su materia non piemontese di sfondo. Dev’essere, ma sinora non è stato quasi mai. Ciò significa che non sono ancora uscito dalla semplice rielaborazione dell’immagine materialmente rappresentata dai miei legami d’origine con l’ambiente: che, in altre parole, c’è nel mio lavorio poetico, un punto morto, gratuito, un sottinteso materiale, di cui non mi riesce di far senza. Ma è poi davvero un residuo oggettivo o sangue indispensabile?

Una riflessione che, a differenza di quello che in un tempo parallelo stava accadendo a Carlo Levi, arrestato insieme a Pavese e confinato ad Aliano in Basilicata, la cui osservazione di quei luoghi, molto più  politica e di impegno meridionalista, si sofferma ad indagare, e a denunciare con il Cristo si è fermato a Eboli, quella parte più strettamente attuale che presenta un Sud povero e con problemi contingenti molto evidenti, porta Pavese su una strada completamente diversa, che guarda ad un passato magnifico e aulico, quello che aveva lasciato i segni della grandezza della Magna Grecia, dei suoi simboli e della sua essenza.  

La Calabria che Pavese si trova davanti non ha ancora subito molte brutture della modernità e nonostante molte cose, ai suoi occhi di uomo del Nord, appaiano incomprensibili e strane, quel paesaggio e quella gente sono ancora in grado di fargli scorgere qualcosa di profondo che va all’essenza di quel mondo rintracciabile nelle immagini, nei simboli, nelle persone. A Brancaleone tutto è greco e la vicinanza con tutto ciò che lo ricorda si trasforma in una dimensione reale e concreta, che lo mette in contatto diretto con quanto, fino a quel momento, aveva potuto appena fiutare nei libri e nelle ricerche di etnologia.

L’incontro con il mito, la scoperta concreta di quello stato primitivo che riporta ad una condizione quasi ancestrale della vita e di tutte le sue sfumature, avviene proprio qui, in questi luoghi carichi di suggestioni e di simboli. L’osservazione delle rocce rosse lunari diventa l’emblema e l’inizio di quella riflessione che lo porterà, poi, ad una elaborazione più complessa della poetica del mito e della sua scrittura.

Il mito, che è l’origine di ogni cosa, l’inizio di tutto che diventa memoria.

La Calabria per caso. La Calabria per sempre

Pavese al confino
Brancaleone – la casa del confino ora diventata museo – immagine presa dal web

Pavese arriva in Calabria per puro caso e, quasi sicuramente, se non ci fosse stata quella contingenza, seppur dolorosa e in qualche modo ingiusta, Pavese non avrebbe mai accarezzato con l’anima le coste del mar Jonio e non avrebbe mai interiorizzato certi passaggi importanti per la sua scrittura.

Ci piace pensare che, in tal senso, trovarsi lì proprio in una fase iniziale della sua carriera di scrittore e proprio in un momento di grande caos sulla strada da prendere fu una sorta di benedizione.

Per lui e per noi.

In quei sette mesi di solitudine Pavese ebbe la possibilità di predisporre un dialogo intimo e intenso con la parte più profonda di sé stesso e con l’essenza di un paesaggio e di una presenza umana e naturale che non lo lasciarono indifferente, contrariamente alla narrazione portata avanti negli anni una parte di critica.

Luigi Maria Lombardi Satriani, in un articolo uscito su Paese Sera scrisse: “la Calabria non suscitò la curiosità di Pavese, che resta fondamentalmente estraneo e ostile alla sua realtà”, ma i segnali delle tracce che la Calabria imprime nell’animo di Cesare Pavese, e che ne indicano il percorso dell’anima, sono molteplici e sparsi ovunque, dunque difficilmente rintracciabili solo da chi non sa leggerne le pieghe.

Il suo rapporto irrisolto con la realtà lo spinge a cercare delle soluzioni nella complessità del mito. L’interesse per il mito, coltivato grazie anche all’amore per la cultura classica e dagli studi di antropologia, diventa l’elemento principale, la fonte essenziale della sua poetica e dell’ispirazione letteraria.

Il mito per Pavese diventa un modo per trovare le risposte che cerca o per farsi altre domande e dare loro una forma. È quel pertugio sottile attraverso cui una sfera di luce entra nella sua anima e gli fa strada su un percorso nuovo. Un percorso che fino a quel momento non aveva saputo vedere, ma che dentro di sé agitava le corde del cuore e il filo sottile della ragione.

E quella luce la scorge proprio tra quelle rocce rosse lunari, che una sera intravede e che stenta a riconoscere, ma che saranno lo spunto per ripartire proprio da lì, dove sembrava quasi che la sua vita e la sua opera dovessero fermarsi.

Emanuela Gioia

Rispondi

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.