LETIZIA BATTAGLIA: una combattente alla ricerca della bellezza

Letizia Battaglia

Che cosa spinge una giovane donna a voler fotografare per molti anni morti ammazzati per le strade di Palermo, svegliandosi nel cuore della notte per raggiungere i luoghi dove si era consumata qualche disgrazia, o rincorrere in qualunque momento le capitasse situazioni che le arrivavano a tiro, mentre si trovava per strada o in macchina, lungo il suo percorso?

Nomen omen, si dice.

E Letizia Battaglia è stata una combattente. Vera, autentica, appassionata. Una donna disposta a combattere le sue battaglie per non soccombere alla rassegnazione, capace di scalare le sue stesse aspettative, nonostante le condizioni poco favorevoli.

Una donna del sud

La sua storia personale inizia come una storia comune a molte donne nate al Sud.

Nasce a Palermo, in una famiglia dove vive asservita al volere del padre.

A 16 anni, stanca della sua condizione di figlia sottomessa al volere della famiglia, decide di sposarsi, più per amore della libertà che per amore verso l’uomo che diventerà suo marito.  

Il matrimonio non cambia di molto il suo senso di frustrazione e di sottomissione. L’uomo che sposa non è molto diverso da suo padre. Siciliano come lui, per diritto acquisito ne prende il posto in fatto di privazioni e controlli, tanto da non permettere a Letizia di continuare a studiare e la relega nel suo ruolo di moglie e madre di tre figlie, diventando opprimente e possessivo, convinto che la sua curiosità culturale e intellettuale possa diventare una minaccia per il loro matrimonio.

Ma Letizia non ci sta. La libertà e la battaglia per ottenere i suoi diritti di donna li sente nella carne, così come nella carne inizierà a sentire forte il bisogno di abbandonare quella condizione di esiliata e rinchiusa in casa senza un motivo, solo perché mamma e moglie, per fare qualcosa anche per sé stessa.

In quel bisogno che cresce c’è la volontà di riprendersi la sua vita in mano, di ricominciare prima di ogni cosa a sentirsi una donna e per l’urgenza di farcela da sola, ma soprattutto per la voglia di fare qualcosa che vada oltre l’idea di un semplice lavoro per mantenere le sue bambine. Il marito le nega ogni cosa, compresa la possibilità di aiutarla per rifarsi una vita e così, costretta dal bisogno, decide di inseguire il sogno di scrivere.

Inizierà come articolista sul famoso quotidiano palermitano, L’Ora, grazie alla fiducia concessale dal direttore di allora, Vittorio Nisticò.

L’Ora di Palermo era in quegli anni presidio di legalità e lotta alla mafia, dove a scrivere erano perlopiù uomini i quali, inizialmente, la guarderanno un po’ con sospetto, un po’ con preoccupazione, un po’ anche con scherno: perché è una donna e perché su quel giornale si scrive soprattutto di cronaca e a Palermo la cronaca vuol dire quasi esclusivamente morti ammazzati.

Letizia non si lascia intimorire dallo sguardo maschio dei colleghi: ha già fatto un passo enorme abbandonando il tetto coniugale, ed è da qui che inizia la sua conquista della libertà tanto desiderata.

La fotografia le arriva addosso un po’ per caso: prima per bisogno, perché insieme agli articoli spesso le vengono chieste delle fotografie a supporto, poi come ripiego. E inizialmente lo fa senza dargli troppo peso, pur ottenendo risultati sorprendenti fin da subito. Le sue foto piacciono, raccontano cose e lo sanno fare bene, pur non avendo alcuna tecnica a supporto, perché sono frutto di un sentimento puro di amore verso ciò che vede e che prova ad immortalare sulla pellicola con tutta la sensibilità e la delicatezza di cui è capace, anche quando si tratta di morti ammazzati.

Ama profondamente Palermo, specie la Palermo “che puzza”, come le piace dire, quella dei quartieri poveri e autentici del centro storico, il cui dolore, quello spasimo che ogni siciliano conosce, diventa moto per tutte le sue battaglie.  

Palermo è affascinante e decadente, di una decadenza che diventa fatica, stanchezza, impedimento al possibile fiorire di tutta la bellezza di cui potrebbe essere capace. E Letizia la ama, ma arriva un momento in cui sente il bisogno di allontanarsi per darsi la possibilità di elaborare il dolore e il lutto e il disprezzo che in certi momenti diventano predominanti. Allontanarsi per farci pace e poi tornare.

Lascia Palermo per un periodo, seppur breve, e si trasferisce a Milano dove inizia a fotografare per diverse testate, perché i suoi pezzi non riscuotono molto successo. Ed è così che inizia la sua storia professionale. Viene richiamata dal direttore dell’Ora di Palermo che le propone un incarico importante: documentare, ma questa volta con la fotografia, il dolore di una città che sta vivendo un dramma enorme, insieme a tutta la Sicilia e all’Italia intera.

È il 1974 e Letizia diventa la prima fotografa donna assunta da un giornale in Italia.

La fotografa della mafia

Letizia Battaglia

Letizia Battaglia è testimone di un pezzo importante di storia italiana.

Verrà definita “fotografa della mafia”, titolo che non sopporta e che in qualche modo la dequalifica e ne svilisce la bravura e il suo sguardo appassionato anche su altro, ingabbiandola in un genere che, di fatto, non le appartiene.

Sono gli anni di piombo e la Sicilia si prepara ad affrontare un periodo di grandi violenze, e per chi, come Letizia fa il cronista, significa essere costretto ad avere uno sguardo su quel delirio quotidiano di morti ammazzati e raccontarne il dolore e il lutto anche di chi, come lei, ne subisce l’odore del sangue da cui per anni sarà ossessionata e perseguitata, e che per moltio tempo sentirà ovunque, persino dentro casa.

Ma lo sguardo di Letizia è capace anche di altro. Il filtro della macchina fotografica le offre molti punti di vista, molti sguardi sulla città e sulle persone. Uno sguardo che attraverso l’obiettivo si fa più lucido e profondo, con cui inizia ad osservare le donne: donne come lei, che di diverso hanno solo l’ombra del non riscatto. Un riscatto mancato nelle donne più adulte che riesce invece a vedere nelle bambine, che diventano simbolo di affrancamento e di liberazione in una terra martoriata dal sangue, dall’odio, dai delitti di mafia e non solo.

Le donne e le bambine che fotografa diventano la sua catarsi: si fanno paladine di vita – in contrapposizione a quella morte che vede e vive sulla pelle tutti i giorni, per caso o per lavoro, di cui sente il fetore e la disperazione che le sta intorno – e simbolo di un altro futuro possibile e della speranza che si contrappone alla rassegnazione.

E in quelle bambine non può fare a meno di vedere la Letizia che tornata a Palermo all’età di 10 anni, dopo aver vissuto per un breve periodo a Trieste con la famiglia, perde la libertà e i propri sogni e che dovrà faticare, e anche molto, per poterli riconquistare. Attraverso l’obiettivo intercetta i loro sogni, di libertà, di amore, di bellezza, e li insegue per fissarli sulla pellicola affinché non vadano completamente perduti. 

Nonostante la definizione di “fotografa di mafia” le stia stretta e nonostante non sia stata l’unica a immortalare certe vicende, c’è da dire che le sue fotografie dei morti ammazzati nei delitti di mafia e dei grandi protagonisti della lotta contro la mafia, sono le uniche che oltre a raccontare la cronaca del tempo, sono state supporto anche per altro, come i processi giudiziari. Molte delle sue foto, infatti, furono messe agli atti e usate per molti processi di mafia e questo perché è Letizia stessa a decidere di farne altri usi e altri racconti.

Letizia Battaglia: una combattente alla ricerca della bellezza
Esposizione di fotografia di Letizia Battaglia al Maxxi – Roma

I suoi scatti, rigorosamente in bianco e nero, raccontano quegli anni terribili, diventando testimonianza e denuncia, allo stesso tempo, di tutto quello che stava accadendo in Sicilia.

Ed è proprio questa la sua forza: quella di avere avuto il coraggio e la determinazione di essere testimone senza filtri e senza paura di un momento in cui la paura e la rassegnazione avevano la meglio su tutti: un momento che necessitava di impegno civile e politico a cui lei ha saputo tenere testa, proprio come ha saputo tenere testa ai suoi colleghi uomini, in un ambiente lavorativo profondamente misogino, e a quel mondo violento da cui non si era fatta sopraffare, nonostante tutto.

La macchina fotografica, che sarà una semplicissima Pentax k 1000 del valore di 200 mila lire, trasforma per sempre la sua vita. Una vita vissuta all’insegna della coerenza. Ogni cosa, che fosse il lavoro di fotografa o l’impegno civile e politico, tutto ha sempre avuto come punto di partenza il suo essere una persona prima che un’artista, una combattente che insegue il suo sogno di libertà trasformandolo nella sua battaglia principale.

Confessa in un’intervista che le sue foto “vengono da sole” e che di tecnica fotografica ha pochissima conoscenza. E non è difficile crederle: le sue foto sono il chiaro segno di quell’amore che muove ogni suo singolo gesto, di quell’empatia che prova nei confronti di chi osserva da dietro l’obiettivo: gli ingredienti migliori per tirare fuori una buona foto.

E lei di buone foto ne ha tirate fuori più di una.

Emanuela Gioia

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