Quando, nel 1979, uscì Il cappello piumato,fu eletta come una delle grandi donne della nostra letteratura. Con Elsa Morante si contesero il titolo di prima assoluta, ma nonostante questo il suo nome non ebbe la circolazione che meritava, così come le sue opere, anche se alcune furono premiate e altre ricevettero proposte da lei rifiutate: vinse, infatti, il Viareggio nel ’53 con Il mare non bagna Napoli e lo Strega con Poveri e semplici nel ’67, e rifiutò il Campiello e il Premio Scanno, dove si sarebbe trovata a gareggiare con grandi firme internazionali.
Una donna la cui vita, ribelle e anticonformista, ha tracciato in qualche modo anche il suo essere una scrittrice con uno sguardo alla letteratura che esulava dal puro diletto, ma raccontava a gran voce una dolorosa ricerca della verità a tutti i costi.
A molti suoi interlocutori, anche di penna, ha sempre urlato il suo dolore per l’isolamento in cui era stata lasciata. Un urlo di dolore che è il suo, ma che allo stesso tempo diventa simbolo di difesa nei confronti dei più deboli: uomini, animali o piante che siano, lei sogna che tutto l’universo che respira possa avere il rispetto che merita.
Di Anna Maria Ortese, narratrice schiva e solitaria, si conoscono circa settecentocinquanta lettere autografe che raccontano, attraverso le vicende oggetto delle varie corrispondenze, le diverse fasi della sua vita: dagli anni della sua giovinezza trascorsa a Napoli, quando frequentava assiduamente casa Croce, agli anni in cui conosce Massimo Bontempelli che le concede l’opportunità di aprirsi al mondo della letteratura, sostenendo la pubblicazione di Angelici Dolori, passando per le diverse amicizie coltivate intorno alla rivista «Sud», come Raffaele La Capria, fino agli incontri milanesi con Elio Vittorini e Alfonso Gatto.
Un ordito fitto e importante, quello costruito dalle lettere, che in qualche modo ha permesso di ricostruire molte vicende particolari della vita di una donna inquieta e tormentata, i cui spostamenti da una città all’altra non sono altro che lo specchio di questo temperamento insofferente che fu la causa, in parte, delle amarezze e dei disagi vissuti come persona e come scrittrice.
Si tratta di recuperi parziali, considerato il fatto che esistono migliaia di lettere scritte dalla Ortese che vanno ben oltre i circa sessanta corrispondenti individuati nella biografia curata da Luca Clerici, Apparizione e visione: vita e opere di Anna Maria Ortese: tra queste le missive di Pietro Citati e di Natalia Ginzburg, le lettere a Dario Bellezza, a Massimo Bontempelli, a Carlo Cassola, oltre che a studiosi o intellettuali, politici, personaggi dello spettacolo o semplici amici.
In questo mucchio di testimonianze importanti, che tratteggiano una figura tanto problematica quanto profondamente sola e disperata, ci sono le lettere indirizzate a Leonardo Sciascia.
Le lettere della Ortese a Sciascia, conservate nella Fondazione Leonardo Sciascia di Racalmuto, sono quindici. Sono tutte provenienti da Rapallo e sono datate dal 1979 fino al 1987; due sono, invece, le lettere di Leonardo Sciascia ad Anna Maria Ortese: una lettera del 4 novembre 1978 e un biglietto del 21 gennaio 1983 dalla clinica medica di Glionsur-Montreux, in Svizzera, dove Sciascia era ricoverato per un accertamento agli occhi, e sono conservate nell’Archivio di Stato di Napoli.
Uno scambio epistolare che racconta di una amicizia a distanza che decretò una stima reciproca sancita già, evidentemente, da una serie di riflessioni che avevano stabilito un “incontro” nel modo di percepire l’Italia come un paese lontano, mangiato dall’indifferenza, estraneo alla ragione.
Nel 1978 la Ortese scrive la prima lettera a Sciascia. L’occasione fu probabilmente il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro, ma la spinta fu certamente quel comune sentire nei confronti del destino di quella parte del paese che viveva sconfitta dalla propria disperazione. Un comune sentire che, proprio in quella occasione, era stato sviscerato da entrambi in due articoli: Il caso Aldo Moro tra coscienza pubblica e Privata, un elzeviro scritto dalla Ortese e uscito sul «Secolo XIX» di Genova, a una settimana di distanza dall’assassinio dello statista da parte delle BR, e l’articolo di Sciascia, in risposta al direttore di «Paese Sera», Aniello Coppola, che lo attaccò definendolo “arrogante” perché taceva.
Entrambi manifestavano un amaro rimprovero alla classe politica, rea di una indifferenza che aveva reso l’Italia un paese irriconoscibile e uno Stato che appariva come un «guscio» vuoto, per usare le parole di Sciascia, con argomentazioni che si assomigliavano molto negli intenti e che si possono riassumere in queste parole conclusive dell’articolo di Sciascia su «Panorama», replica lapidaria alle accuse di arroganza mosse da Coppola:
«Capisco che ci sia, da parte dei fanatici, la esigenza di etichettarmi una volta per tutte o come rivoluzionario o come reazionario. I fanatici hanno bisogno di star comodi. Per mia parte, dico di essere semplicemente, in questo momento, un conservatore. Voglio conservare, di fronte allo Stato che se ne è svuotato, la Costituzione. Voglio conservare la libertà e la dignità che la Costituzione mi libertà e dignità sento oggi che sono in pericolo. In quanto cittadino capisco – ma non approvo – che molti siano disposti a barattare libertà e dignità per un po’ di ordine pubblico, di sicurezza: in quanto scrittore mi batterò affinché questo baratto non si compia».
La Ortese considera l’impegno di Sciascia come una forza impari di fronte al muro di ipocrisia del potere politico, ma ne ammira la generosità e il coraggio, soprattutto in virtù della differenza che passa tra quelli e la sua vita, di cui dirà in una delle lettere: «Io sempre qui, in questa Rapallo che mi è diventata un deserto, col cuore stretto».
Una reclusione di cui non fa mistero, ma che non le impedisce di essere attenta a tutto quello che si muove nella società italiana, dimostrandosi spesso una combattente polemista e poco accomodante, ma soprattutto “disperata” nel non vedere più una via d’uscita alla situazione italiana e mondiale.
«Non sono stata educata a vivere nel mondo reale, e col mondo reale. Questo reale è un disastro, un mare senza mai pace. Se hai difese, di famiglia, di denaro, oppure hai doti naturali, non te ne accorgi. Se non ne hai, è un’offesa continua. In più, una noia. Tutto si ripete come se non fosse mai accaduto prima; invece è già accaduto: guerre, miseria, rivoluzioni. L’offesa è rappresentata dal dolore e il sangue degli altri, e della natura stessa, che non finisce più. La noia, dal chiacchiericcio o i grandi mutamenti che si organizzano intorno a questo dolore, senza – infine – vederlo nemmeno, trascurandolo del tutto. Allora, se non hai difese, per forza cerchi un altro mondo. Scrivere, – se non è pura vanità o lusso – è proprio cercare un altro mondo. Cercarlo disperatamente.»
Rapallo, 24 agosto 1981
Caro Sciascia,
qualche anno fa Lei mi telefonò una sera da Palermo, dandomi una grande gioia. È il pensiero a cui mi affido scrivendole questa lettera: che Lei può avere amicizia per gli amici (non sembri strano: gli amici spesso sono ornamenti).
Ho bisogno del Suo aiuto. Ma non diretto. Lei potrebbe aiutarmi a trovare la strada giusta per risolvere un disperato problema.
Sono a Rapallo dal ’75. Vivo con mia sorella. Mia sorella – senza una sua famiglia, solo me – ha artrosi, altri mali, e soprattutto un sistema nervoso sconvolto. Ma viviamo insieme da tanti anni, ci si vuol bene, ci si aiuta, e certe cose possono non apparire chiare. Ora non più.
Stati di depressione e stati di agitazione sono continui, malgrado le cure, la mia vita è a soqquadro, e un’angoscia, come davanti a un mistero, mi domina.
Dovrei riportarla in città (questo è un paese sonnolento e ricco) a Genova, dove abbiamo degli amici e ci sono dottori migliori, e c’è soprattutto la città che lei ama da sempre. Questo solo potrebbe aiutarla, e sollevare anche me. Sono oppressa.
Sto male anch’io, qui. Nessuno, in sei anni, ha potuto darci una mano a trovare una casa d’affitto serena. Noi due non abbiamo potuto comprare nulla, né io coi miei rari guadagni, né mia sorella con trent’anni di ufficio postale (ora è in pensione). A Roma, nel ’75, vivevamo in casa d’altri, della figlia di Sironi, e la casa, molto bella, serviva. Perciò venimmo via. Scelsi la Liguria, per avere un clima più fresco. All’inizio ci adattammo, poi la Banca Commerciale di Milano mi fece avere questa casa. Credevo di poterla lasciare in un momento migliore, ma questo momento non è mai venuto. È nel pieno centro della cittadina. È una casa del tempo di Garibaldi, con i pavimenti rotti, senza balconi, solo finestre, e il rumore delle macchine, tutte le volte che non piove, è una mostruosità. Rumore, ma senza sole, e d’inverno niente riscaldamento.
Dove non c’è la strada, e il rumore – dall’altra parte – c’è un cortile profondo, e sale oltre il nostro piano di altri cinque piani, e nasconde il cielo. Non si vede mai nulla, né di notte né di giorno.
Mi scusi se Le racconto tutto questo: ma so ormai come nascono o peggiorano le nevrosi, come la vita, per la impossibilità di uscire da una situazione negativa, pessima, può diventare qualcosa di atroce. Anche per l’ira e la desolazione che si alternano sempre.
Quanto ho chiesto – scrivendo a tanti ‘amici’ –, di uscire di qui! Perché vedevo chiaramente come crollava la salute di mia sorella – per questo rumore e chiusura continua. E poi non potevo lavorare più. Cominciavo una storia, e dopo un po’ dovevo smettere: per forza maggiore. Nel ’78, per due anni, ci sono stati lavori di ristrutturazione, in tutto il palazzo (che ora è pulito ed elegante, ma non ci abita quasi nessuno), meno qui. Qui era solo l’inferno. Si aggiungeva il traffico dell’estate.
Scrissi anche al Sindaco di Rapallo, un democristiano, perché mi aiutasse. Non rispose nemmeno. Scrissi poi anche a A. Rizzoli, ad altri potenti. Sempre silenzio. Imparai allora a dormire, quando mi sentivo proprio male, con i pollici nelle orecchie. E così, quando sono sfinita, in pieno giorno, dormo ancora. Ma, ora, non è più questione di dormire, di recuperare sonno: a che serve? Vorrei solo lavorare, tornare a scrivere storie, e vedere un po’ in pace mia sorella.
Ma chi ci toglierà di qui? Chi ci darà un po’ di sole, di civiltà, un po’ d’aria? Conosco gli italiani nuovi: nessuno.
Qui ci sono forse quindicimila alloggi, tutti belli, vuoti. Ci sono poi case del Comune: vuote. Ci sono – credo – case di proprietà di Banche: vuote! E così, ma in misura maggiore, è a Genova.
Io avrei voluto un alloggio in case popolari. Ma mi fu respinta la domanda, due anni fa, perché non vivo a Genova, e non lavoro in senso fisico (non ho salario). Così, non ci penso più. Ma case del Comune, con un po’ d’aria, e un terrazzino, a Genova ce ne sono. Dico case vecchie, perché il nuovo non l’avrò più. Anche una casa vecchia, ma la luce e l’aria.
Scrivo di questo a Lei, caro Sciascia, non perché se ne occupi direttamente; questo sarebbe assurdo, e anche inutile. Ma perché presenti questa situazione desolata a qualcuno di Roma. Anche, occorrendo, a Giovanni Spadolini. Quando scrivevo – pagina della donna – sul Corriere, mi approvava con generosi telegrammi. Lo ricordo con ammirazione per questa generosità. Ora, non posso più scrivere articoli, ma libri sì, ancora. Almeno spero. Credo nei libri. Il più gran dolore è avere una moneta e non poterla più spendere. Come Lei sa, i libri non mi hanno portato fortuna. Ma li amo ancora, come l’attività più alta; anche necessaria. Sembra di aver compiuto il proprio dovere, scrivendo questi libri, quando non c’è stato altro, e io non ho avuto altro. Un dovere che dà pace.
Ora, molto tempo non c’è più. Non ho mai avuto una vacanza, un giorno solo. Perché una casa, che non sia segregazione e dolore, non dovrebbe essere giusta? Così, mentre accorata e impaurita Le scrivo questa lettera, la mia speranza è questa: di non chiedere cosa non giusta.
Ma qui termino. E La saluto con tutto il mio augurio e il mio affetto. Stia bene, e non mi dimentichi, caro Sciascia.
Sua Anna Maria Ortese
C’è tutto il suo inferno quotidiano in questa lettera: la sua odissea della casa, del non averne una, della sua drammatica condizione economica, dei rumori che l’assediano e che le impediscono di scrivere.
La scrive proprio a Sciascia perché era lo scrittore a cui stava più a cuore il destino di un’Italia disperata.
E lei lo era, disperata. Disperata, ma non rassegnata.
Anche nello stremo delle forze non si arrende al suo sogno di una vita in cui tutti possano avere il loro posto nel mondo e la propria dignità.
Visse una condizione umana difficile, quasi da esiliata, ma lei amava quella sua solitudine popolata di fantasmi, ed è proprio da questa solitudine che è derivata tutta la sua letteratura.
Aveva un po’ la tendenza ad essere vittima, non amava presentarsi in pubblico ed era diffidente con tutti.
In quell’occasione, però, prima ancora di avere una risposta ebbe uno slancio di gratitudine e ammirazione nei confronti di Sciascia, che espresse in una nuova missiva:
Rapallo, 12.9.81
Caro Sciascia, sono mortificata ma insieme tanto contenta di aver bussato dov’è scritto il Suo nome: Grande Sicilia.
Lei solo ha aperto.
Se poi non si arrivasse a qualcosa, so che non era fattibile. E non verranno meno, in me, gratitudine e ammirazione per la Sua bontà.
Questa sola può sollevare il mondo, oggi, lo so. Tutto il resto è sogno. Ancora mi scuso. E ancora Le ripeto – così, detto da me, è cosa però modesta – che il Suo nome mi è caro. Grandi auguri per tutto!
Affettuosamente,
Anna Maria Ortese
Una bontà e una generosità che lei aveva saputo scorgere in quell’uomo apparentemente ombroso, nonostante non si fossero mai incontrati di persona e che non tarda a dare i suoi frutti
Da una lettera del 27
novembre si intuisce che l’ intervento di Sciascia presso Spadolini è andato a
buon fine:
Rapallo, 27. 11.81
Caro Sciascia,
ho ricevuto una lettera dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri (firmata credo da Francesco Compagna): mi si comunica l’assegnazione di un premio di cultura, di 2 milioni.
Può immaginare la mia gioia! È una sorpresa, ma anche una provvidenza grande, perché mi consente di affrontare senza angosce economiche l’anno nuovo. Ho ripreso – anzi avevo ripreso da un po’ il mio lavoro, e mi chiedevo solo come avrei potuto, anche superando questo gran senso di vuoto – ignorare i miei doveri economici. Questo pensiero, in aggiunta, mi distruggeva. Ora sto meglio, davvero; e penso di doverlo a Lei. Dio La benedica, caro Sciascia. Buon lavoro. (Ora ho un debito di lavoro, con Lei).
L’abbraccio
Anna Maria Ortese
Il carteggio si chiude il 28 Giugno 1987, con una lettera della Ortese in cui il dramma della «casa», nonostante il Premio Fiuggi e il vitalizio assegnatole, continua a tormentarla, e in cui lo prega di contattare il Sindacato Nazionale Scrittori perché le conceda un prestito.
Sciascia è ammalato, ma continua ad aiutarla.
Due settimane dopo, quasi in segno di pentimento, la Ortese vacilla di fronte a questa sua “debolezza morale” e scrive un’ altra lettera in cui si sente in dovere di smorzare le sue accuse, riconoscendo l’aiuto già ottenuto in alcune circostanze, senza dimenticare di sottolineare la condizione peggiore di molti altri scrittori; con un pensiero particolare a Mario La Cava, poverissimo e malato nella sua Bovalino – per il quale Sciascia dalle pagine del La Stampa aveva già lanciato un appello addolorato – e a Enrico Morovich, altro scrittore dimenticato.
È un carteggio lacunoso quello tra Anna Maria Ortese e Leonardo Sciascia: alcune lettere sono andate smarrite, ma nonostante questo è molto chiaro lo slancio che spinse la Ortese, anima vissuta e morta in pena, a ricercare in un interlocutore come Sciascia, “uomo molto umano, impastato di orgoglio e pudore” dai “tratti di gentilezza scontrosa, di misteriosa delicatezza”, come lo aveva definito Gesualdo Bufalino, una complicità alle sue angosce che in quegli anni, come nel passato, riguardano anche la sua vita privata, con la sua drammatica condizione economica e lo stato di prostrazione psicologica in cui si trova a vivere con la sorella.
E lei, una donna dallo sguardo puro, ma che mai è stata contenta di sé stessa, né delle persone che aveva vicino, né del mondo, non può fare a meno di scontrarsi con un’Italia indifferente e straniera, che manca di ogni bene civile e morale. Si sente sola e non ha speranza in questa umanità addormentata e immobile come probabilmente racconterà a Sciascia nella sua prima lettera, andata perduta, del 7 luglio 1978, che è all’origine della corrispondenza tra i due scrittori, e alla quale fa riferimento Sciascia nella risposta del 4 novembre 1978, in cui subito appare chiara la reciproca stima e l’amicizia a distanza che si instaurò tra due anime apparentemente distanti, ma mosse dagli stessi principi etici e civili:
Racalmuto, 4 XI 78
Cara Anna Maria Ortese,
(…)
Le sue domande sono anche le mie. E principalmente questa: che cosa è questo Paese? Un Paese, sembra, senza verità; un Paese che non ha bisogno di scrittori, che non ha bisogno di intellettuali. Disperato. Pieno di odio.
E nella disperazione e nell’odio propriamente spensierato, di una insensata, sciocca vitalità. Sembra. E poi si scopre – come io l’ho scoperto in questi ultimi mesi – che c’è invece come nascosto, come clandestino, un paese serio, pensoso, preoccupato, spaventato.
Ma intanto dobbiamo fare i conti con quell’altro paese, quello del potere, dei poteri: quello che non vuole la verità, che non ci vuole, che ci costringe a quella che Moravia chiama estraneità dolorosa. Ed è davvero duro sentirsi come stranieri. (Lei vede quel che mi accade per ora: bersaglio degli imbecilli, degli invidiosi, dei servi, e per aver scritto una verità che mi pare persino ovvia).
Sì, credo anch’io nel “male”. Nell’oggettività del “male”. Nel male che torna a invadere l’uomo che non sa più coltivare il bene: così come qui, intorno a me, la campagna non più coltivata è ora invasa dalle erbe.
(…)
Con i saluti più cari, mi creda
suo
Leonardo Sciascia