Discorso sulle donne di Natalia Ginzburg

Di donne e di pozzi: l’universo femminile raccontato da due grandi scrittrici.

DISCORSO SULLE DONNE di Natalia Ginzburg

L’universo femminile, bistrattato, vilipeso, vittima spesso però, anche di sé stesso, è sempre stato al centro di un dibattito controverso e raccontato da punti di vista diversi.

Oggi più che mai, si parla di condizione della donna, di femminicidio, di libertà contesa e negata. È un parlare confuso, rumoroso, borbottato dagli uomini ma anche dalle stesse donne che, nonostante siano alla ricerca del medesimo equilibrio, diventano, loro stesse,  funambole inquiete e indecise e, per ogni piccolo passo fatto in avanti, sembrano rimanere appese ad una titubante idea che, evidentemente, non contempla l’unico vero obiettivo da raggiungere: una coscienza femminile, la propria, svincolata da giudizi e pregiudizi, da condizioni imposte e, soprattutto, dalla sopraffazione, dalla prepotenza, dal sopruso, dalla violenza di molti uomini e di un sistema maschilista radicato che non sa, o non vuole,  vedere il cambiamento della società e del sistema stesso.

Una coscienza che contempli la differenza di due universi che convivono e che potrebbero, nell’unione, diventare perfezione, mentre elaborano continuamente distanze, quasi a voler sfuggire da certi tratti per avere il pretesto di continuare a combattere e battersi senza risultato.

In tal senso un’opportunità di riflessione mi è arrivata da Natalia Ginzburg e dal suo “Discorso sulle donne”, pubblicato nel  1948 sulla rivista «Mercurio», fondata da Alba de Céspedes,  e riportata nel bellissimo volume, curato da Domenico Scarpa, «Un’assenza. Racconti, memorie, cronache», pubblicato nel 2016 da Einaudi,  e ancor più dallo scambio che questo discorso ho generato tra Natalia e la stessa Alba de Céspedes che sulla stessa rivista le risponde con una lunga lettera, proponendo un punto di vista diverso, ma complementare, se vogliamo, a quella visione di insieme che probabilmente è il problema nel problema e che, se affrontato diversamente, potrebbe diventare soluzione.

Se per Natalia, infatti, l’ “abitudine di cascare ogni tanto in un pozzo, di lasciarsi prendere da una tremenda malinconia e affogarci dentro e annaspare per tornare a galla” è la piaga che subordina l’universo femminile ad una condizione di non libertà – che sia di azione o di pensiero -, per la de Céspedes il punto di vista si ribalta e quella piaga diventa risorsa dalla quale attingere la vera forza: “Poiché ogni volta che cadiamo nel pozzo noi scendiamo alle più profonde radici del nostro essere umano e nel raffiorare portiamo con noi esperienze tali che ci permettono di comprendere tutto quello che gli uomini non comprenderanno mai

Riporto, di seguito, entrambe le argomentazioni espresse da due scrittrici che del loro essere donne hanno certamente saputo lasciare un segno, spesso anticipando i tempi,  difendendo  la causa senza vittimismi o apprezzamenti futili o femminismi teorici, ma attuati, eseguiti, concretizzati attraverso l’esempio e il saper essere donne e  forti a modo loro.

DISCORSO SULLE DONNE di Natalia Ginzburg


“L’altro giorno m’è capitato fra le mani un articolo che avevo scritto subito dopo la liberazione e ci sono rimasta un po’ male. Era piuttosto stupido: quel mio articolo parlava delle donne in genere, e diceva delle cose che si sanno, diceva che le donne non sono poi tanto peggio degli uomini e possono fare anche loro qualcosa di buono se ci si mettono, se la società le aiuta, e così via. Ma era stupido perché non mi curavo di vedere come le donne erano davvero: le donne di cui parlavo allora, erano donne inventate, niente affatto simili a me o alle donne che m’è successo di incontrare nella mia vita; così come ne parlavo pareva facilissimo tirarle fuori dalla schiavitù e farne degli esseri liberi. E invece avevo tralasciato di dire una cosa molto importante: che le donne hanno la cattiva abitudine di cascare ogni tanto in un pozzo, di lasciarsi prendere da una tremenda malinconia e affogarci dentro, e annaspare per tornare a galla: questo è il vero guaio delle donne.

Le donne spesso si vergognano d’avere questo guaio, e fingono di non avere guai e di essere energiche e libere, e camminano a passi fermi per le strade con bei vestiti e bocche dipinte e un’aria volitiva e sprezzante. M’è successo di scoprire proprio nelle donne più energiche e sprezzanti qualcosa che mi indiceva a commiserarle e che capivo molto bene perché ho anch’io la stessa sofferenza da tanti anni e soltanto da poco tempo ho capito che proviene dal fatto che sono una donna e che mi sarà difficile liberarmene mai.

Ho conosciuto moltissime donne, donne tranquille e donne non tranquille, ma nel pozzo ci cascano anche le donne tranquille: tutte cascano nel pozzo ogni tanto. Ho conosciuto donne che si trovano molto brutte e donne che si trovano molto belle, donne che riescono a girare i paesi e donne che non ci riescono, donne che hanno mal di testa ogni tanto e donne che non hanno mai mal di testa, donne che hanno tanti bei fazzoletti e donne che non hanno mai fazzoletti o se li hanno li perdono, donne che hanno paura d’essere troppo grasse e donne che hanno paura d’essere troppo magre, donne che zappano tutto il giorno in un campo e donne che spezzano la legna sul ginocchio e accendono il fuoco e fanno la polenta e cullano il bambino e lo allattano e donne che s’annoiano a morte e frequentano corsi di storia delle religioni e donne che s’annoiano a morte e portano il cane a passeggio e donne che s’annoiano a morte e tormentano chi hanno sottomano, e donne che escono il mattino con le mani viola dal freddo e una sciarpetta intorno al collo e donne che escono al mattino muovendo il sedere e specchiandosi nelle vetrine e donne che hanno perso l’impiego e si siedono a mangiare un panino su una panchina del giardino della stazione e donne che sono state piantate da un uomo e si siedono su una panchina del giardino della stazione e s’incipriano un po’ la faccia.

Ho conosciuto moltissime donne, e adesso sono certa di trovare in loro dopo un poco qualcosa che è degno di commiserazione, un guaio tenuto più o meno segreto, più o meno grosso: la tendenza a cascare nel pozzo e trovarci una possibilità di sofferenza sconfinata che gli uomini non conoscono forse perché sono più forti di salute o più in gamba a dimenticare se stessi e a identificarsi con lavoro che fanno, più sicuri di sé e più padroni del proprio corpo e della propria vita e più liberi. Le donne incominciano nell’adolescenza a soffrire e a piangere in segreto nelle loro stanze, piangono per via del loro naso o della loro bocca o di qualche parte del loro corpo che trovano che non va bene , o piangono perché pensano che nessuno le amerà mai o piangono perché hanno paura di essere stupide o perché hanno pochi vestiti; queste sono le ragioni che danno a loro stesse ma sono in fondo solo dei pretesti e in verità piangono perché sono cascate nel pozzo e capiscono che ci cascheranno spesso nella loro vita e questo renderà loro difficile combinare qualcosa di serio.

Le donne pensano molto a loro stesse e ci pensano in modo doloroso e febbrile che è sconosciuto a un uomo. Le donne hanno dei figli, e quando hanno il primo bambino comincia in loro una specie di tristezza che è fatta di fatica e di paura e c’è sempre anche nelle donne più sane e tranquille. È la paura che il bambino si ammali o è la paura di non avere denaro abbastanza per comprare tutto quello che serve al bambino, o è la paura d’avere il latte troppo grasso o d’avere il latte troppo liquido, è il senso di non poter più girare tanto i paesi se prima si faceva o è il senso di non potersi più occupare di politica o è il senso di non poter più scrivere o di non poter più dipingere come prima o di non poter più fare delle ascensioni in montagna per via del bambino, è il senso di non poter disporre della propria vita, è l’affanno di doversi difendere dalla malattia e dalla morte perché la salute e la vita della donna è necessaria al suo bambino.
Le donne sono una stirpe disgraziata e infelice con tanti secoli di schiavitù sulle spalle e quello che devono fare è difendersi dalla loro malsana abitudine di cascare nel pozzo ogni tanto, perché un essere libero non casca quasi mai nel pozzo e non pensa così sempre a se stesso ma si occupa di tutte le cose importanti e serie che ci sono al mondo e si occupa di se stesso soltanto per sforzarsi di essere ogni giorno più libero. Così devo imparare a fare anch’io per prima perché se no certo non potrò combinare niente di serio e il mondo non andrà mai avanti bene finché sarà così popolato d’una schiera di esseri non liberi.”

da Un’assenza. Racconti, memorie, cronache, a cura di Domenico Scarpa, Einaudi, Torino 2016, pp. 151-156

La risposta di Alba de Céspedes

Mia carissima, voglio scriverti due parole appena finito di leggere il tuo articolo.

È così è bello sincero che ogni donna, specchiandosi in esso, senta i brividi gelati nella schiena. Tuttavia, per un momento, avevo pensato di non pubblicarlo, temendo di commettere un’indiscrezione verso le donne nel rivelare questo loro segreto. Inoltre pensavo che gli uomini lo avrebbero letto distrattamente, o con la loro vena di ironia, senza intuire l’accorata disperazione e il disperato vigore che è nelle tue parole, e avrebbero avuto una ragione di più per non capire le donne e spingerle ancora più spesso nel pozzo.

Ma poi ho pensato che gli uomini dovrebbero infine tentare di capire tutti i problemi delle donne; come noi, da secoli, siamo sempre disposti a tentare di capire i loro. Ti dirò che nel pubblicare il tuo discorso ho dovuto vincere un senso istintivo di pudore: lo stesso, certo, che tu avrai dovuto vincere nello scriverlo. Poiché anch’io, come te e come tutte le donne, ho grande e antica pratica di pozzi: mi accade spesso di cadervi e vi cado proprio di schianto, appunto perché tutti credono che io sia una donna forte e io stessa, quando sono fuori dal pozzo, lo credo.

Figurati, dunque, se non ho apprezzato ogni parola del tuo scritto. Ma – al contrario di te – io credo che questi pozzi siano la nostra forza. Poiché ogni volta che cadiamo nel pozzo noi scendiamo alle più profonde radici del nostro essere umano, e nel raffiorare  portiamo in noi esperienze tali che ci permettono di comprendere tutto quello che gli uomini – i quali non cadono mai nel pozzo – non comprenderanno mai. È questo il difetto degli uomini a parer mio: quello di non abbandonarsi mai totalmente, ma mai lasciarsi cadere nel pozzo. Sicché a volte io penso con affettuosa compassione che essi non abbiano pozzi in cui cadere e quindi non possono mai venire a contatto immediato con la debolezza, i sogni, le malinconie, le aspirazioni, e insomma tutti quei sentimenti che formano e migliorano l’animo umano e che -sebbene inconsapevolmente e per un succedersi di ignorati tranelli – pesano anche sulla vita dell’uomo più conforme al modello virile. Nel pozzo sono pure tutte le dolorose e sublimi verità dell’amore, sono anzi nel fondo più profondo di ogni pozzo, ma le donne, tutte le donne delle quali tu parli, vi crollano dentro così pesantemente da riuscire a toccarle. E noi siamo spesso infelici in  amore, appunto perché vorremmo trovare un uomo che anche lui avesse qualche volta nel pozzo e, tornando su, sapesse quello che noi sappiamo.

Questo è impossibile, vero, Cara Natalia?  e perciò è impossibile per noi veramente essere felici in amore. Ma quando si cade nel pozzo si sa anche che essere felici non è poi molto importante: è importante sapere tutto quello che si sa quando si viene su dal pozzo.

Del resto – tu non lo dici, ma certo lo pensi – sono sempre gli uomini a spingerci nel pozzo; magari senza volerlo. Ti è mai accaduto di cadere nel pozzo a causa di una donna? Escludi naturalmente le donne che potrebbero farci soffrire a causa di un uomo, e vedrai che, se vuoi essere sincera, devi rispondere di no. Le donne possono farci cadere nell’ira, nella cattiveria, nell’invidia, ma non potranno mai farci cadere nel pozzo. Anzi, poiché quando siamo nel pozzo noi accogliamo tutta la sofferenza umana, che fatta, prevalentemente, dalla sofferenza delle donne, siamo benevole con loro, comprensive, affettuose.

Ogni donna è pronta ad accogliere e consolare un’altra donna che è caduta nel pozzo: anche se è una nemica. Poiché è appunto a prezzo di questa pietosa comprensione del dolore umano che noi, a poco a poco, ci risolleviamo e riusciamo a venir fuori dal pozzo. Sì, devi ammetterlo sono proprio gli uomini a spingerci nel pozzo. I figli pure sono uomini, e i fratelli, i padri; ed essi tutti con le loro parole, e più ancora con i loro silenzi, ci incoraggiano a cadere nel pozzo smemorante ove loro non possono raggiungerci e noi possiamo esser sole con noi stesse.

Vedi, cara Natalia, proprio a proposito di questi pozzi io ho tanto insistito perché, in questo stesso numero della rivista, Maria Bassino, uno dei maggiori penalisti italiani, difendesse il diritto delle donne ad essere magistrati. Perché spesso è proprio nel fondo del pozzo che le donne uccidono, rubano, compiono insomma tutti quei gesti che le umiliano, soprattutto perché sono contrari al naturale rispetto che ogni donna deve a se stessa. E gli uomini non solo ignorano l’esistenza di quei pozzi, e tutto ciò che si impara quando si cade in essi, ma ignorano anche d’essere proprio loro a spingervi le donne con tanta spietata innocenza. Anche i magistrati ignorano tutto ciò, perché i magistrati – appunto – sono uomini. E non è giusto che le donne siano giudicate soltanto da chi non conosce come esse sono veramente, e perché agiscono in un modo piuttosto che in un altro, mentre gli uomini sono sempre giudicati da coloro che, per essere della loro stessa natura, sono i più adatti ad intenderli.

Gli uomini e le donne, tu dici, non sono fatti alla stessa guisa. Ma quale dei due è fatto meglio? Chi scende nel pozzo – ad esempio – conosce la pietà. E come si può vivere, agire, governare con giustizia senza conoscere la pietà?

Inoltre il mondo è popolato almeno per metà di donne. E non è giusto che almeno la metà degli esseri che abitano il mondo viva in stato di soggezione per l’incomprensione dell’altra metà; che è appunto la metà che agisce, decide e governa. Tu dici che le donne non sono esseri liberi: e io credo invece che debbano soltanto acquisire la consapevolezza delle virtù di quel pozzo e diffondere la luce delle esperienze fatte al fondo di esso, le quali costituiscono il fondamento di quella solidarietà, oggi segreta istintiva, domani consapevole e palese, che si forma fra donne anche sconosciute l’una all’altra. Del resto essere liberi dal dolore, dalla miseria umana, è veramente un privilegio? La superiorità della donna è proprio nella possibilità di finire su una panchina, come tu dici, in un giardino pubblico, anche se è ricca, anche se scrive o dipinge, anche se ha occhi belli, gambe belle, bocca bellissima. Anche se ha vent’anni. Perché neppure la gioventù dà alla donna la sicurezza che tanto spesso possiedono gli uomini, e che è solo ignoranza della reale condizione umana.

Scusa, mia cara questa lunga lettera. Ma volevo dirti che, a parer mio, le donne sono esseri liberi. E, tra l’altro, volontariamente accettano di essere spinto nel pozzo; delle sofferenze che se patiscono nel pozzo vorrei parlarti a lungo, perché tutte le sofferenze sono nella vita delle donne; ma allora, per essere perfettamente onesta, dovrei anche parlarti di tutte le gioie che esse trovano in loro.

E di queste non posso parlarti oggi perché mi trovo – come spesso – nel pozzo.
Ti abbraccio, cara.

dalla rivista Mercurio – ANNO V/numero 36-39 – marzo/giugno 1948

Emanuela Gioia

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