#Unite – L’ amore non fa male

Unite azione letteraria

Questo articolo/racconto è parte di una campagna a cui hanno aderito scrittrici e giornaliste italiane per denunciare la violenza di genere e nominarla. Un’azione necessaria, che serve a fare qualcosa di buono, di costruttivo, di incisivo, come le parole sanno essere, in merito alla violenza contro le donne.

Unite azioneletteraria
Foto di Sydney Sims su Unsplash

Il termine femminicidio è stato scelto dall’ Istituto della Enciclopedia Treccani come parola dell’anno per il 2023. Una scelta dettata dalla necessità di essere parte di un dibattito che possa stimolare una riflessione sempre più profonda e pregnante, affinché diventi consapevolezza di un problema che si sta facendo sempre più feroce e imponente, in Italia e non solo...


È importante, quanto necessario, che certe riflessioni corrano tra le righe e si trasformino in pensieri, fissi, possenti, nelle teste degli uomini ma anche di tutte quelle donne che si sentono sole, che credono di essere le uniche, che hanno bisogno di sapere di non esserlo e, soprattutto, che esiste qualcosa di grande e di buono, che si chiama unione, sostegno, solidarietà, che le tiene insieme. Che le tiene #Unite

Pensieri che il più velocemente possibile possano trasformarsi in azioni vere, concrete, tangibili. Perché nessuno si salva da solo. Ognuno di noi può esserci, facendo quel che può, e essere in tanti può essere un contributo indispensabile.


L’ amore che uccide

L'amore che ferisce

Quando ti accorgi che quell’uomo non è la persona che credevi, spesso è troppo tardi.

E, spesso, te ne accorgi quando il tempo per fare delle scelte che siano solo tue è finito da un pezzo.

È inutile raccontarsi la storiella della libertà della donna grazie al progresso, perché di fatto questa è una parolina che rimane sulla carta, un concetto troppo fragile, quando associato alle donne, per far sì che possa rompere degli schemi che, a conti fatti, rimangono intatti non solo nella mentalità maschile e maschilista della nostra società, ma soprattutto nella forma mentis culturale che persiste, e insiste, e dà adito agli uomini di sentirsi sempre dalla parte giusta, a scapito delle donne.

Quelle stesse donne che, da parte loro, si sono solo sobbarcate di critiche e problemi, pratici e di concetto, per oltrepassare il guado.

Solo con le loro forze.

Libertà è una parola che, proprio per il suo stesso significato, non dovrebbe avere perimetri nella sua applicazione. Eppure la sua attuazione troppo spesso viene circoscritta alle decisioni di alcuni individui su altri. Succede nei grandi sistemi sociali, ma anche in quelli piccoli, come la famiglia, o semplicemente il sistema coppia, dove a dettare le regole è la legge del più forte che, di diritto, è sempre l’uomo.

E spesso la condizione della donna è quella di una schiavitù mentale e psicologica che non ha nulla a che vedere con la condizione sociale o culturale o professionale. Tutte le donne ci possono cascare e rimanerne vittime per un tempo infinito, anche quando ne hanno consapevolezza e sanno bene di esserci dentro con tutte le scarpe.

Ma il punto non è questo. Non può essere questo. Perché se le donne oltre a subire la violenza devono anche sentirsi in colpa per esserci cascate, tutta la faccenda diventa un loop da cui non si esce. E, infatti, i numeri parlano chiaro. Ogni anno sono centinaia le donne che arrivano all’epilogo finale, ma sono tante e tante altre quelle che subiscono, in silenzio, violenze di ogni tipo.

Chi non ci passa non lo può capire. Sembra una frase fatta, un concetto banale, ma è così che funziona. Perché quella trappola sembra così scontata e facile da contrastare che dal di fuori non ti spieghi come possa continuare ad essere.

E spesso la violenza è subdola, per nulla esplicita. È lenta e agisce nel tempo, come una goccia che, pian piano, modella qualunque corpo stia sotto di lei per tanto tempo, anche quello più duro, più solido, più tenace. Anche quello che, di fatto, prova a resistere e, proprio per questo, ci rimane sotto e diventa la migliore vittima che un carnefice possa desiderare.

Il tempo, poi, fa la sua parte: scalfisce là dove sei più dura e annienta tutto di te fino a fare spazio solo a lui: alle sue scelte, alle sue parole, alle sue emozioni, ai suoi tentacoli che si fanno sempre più lunghi e invadenti e ti avvinghiano e tu non sai più come liberartene perché sono in ogni angolo di te. All’inizio pensi di essere comoda con quelle catene che sembrano quasi abbracci e poi inizi a sentirle strette e a sentirne il dolore, ma quando provi a districarti fa ancora più male e allora cerchi il modo di starci bene in quelle catene, di sentire meno dolore, di convincerti che sono meno dure di come sembrano e che basta solo accomodarle bene intorno a te.

E non c’è bisogno di vedere i lividi che segnano i corpi. La violenza ha tante forme che se non ti uccidono nel corpo possono fare di peggio: annientarti l’anima, sopprimerla, distruggere le emozioni, convincerti che tu non vali niente e che non meriti niente, nemmeno di vivere.

E se non è morte anche questa, ditemi voi cos’è.


Quello che segue è un racconto che ho scritto qualche tempo fa. Un racconto che non ha riferimenti a persone o fatti precisi, ma solo a vicende che, nel dolore e nella mostruosità della loro esistenza, si somigliano un po’ tutte, specie nella crudeltà del loro potere persuasivo e un po’ meno, sfortunatamente, nell’epilogo. Un epilogo che, per quanto possa sembrare approssimativo e semplicistico, vuole solo essere un pensiero positivo, un fiore da porgere, un abbraccio di salvezza.

BASTAVA POCO

Hai voluto aprire in due la mia testa, per ficcarci dentro un mucchio di fandonie travestite da amore e affetto e comprensione.

Ti sei preso ogni cosa che hai trovato dentro, l’hai impacchettata stretta dentro un bavaglio di pietra e catene e l’hai rimpiazzata a tuo piacimento: un po’ alla volta, piano piano, con delicata destrezza e infingardo livore.

***

Il telefono sta squillando da qualche minuto, ma non mi riesce di muovere neanche un muscolo per arrivare a spegnerlo o rispondere.

Nell’ultimo periodo non rispondo molto al telefono: non ne ho la forza fisica, ma più di tutto non so se sono in grado di adempiere a tutto quello che comporta la risposta: l’ascolto, l’annuire alle affermazioni altrui, il far finta di essere partecipe a qualcosa che sento distante, a prescindere.

Si presenta così il buio pesto: come un’inerzia che ti fa smettere di respirare, di guardare, di sentire. Una stanchezza dell’anima che si ripercuote nella testa e sui muscoli che diventano impotenti, come pestati da una forza bruta che ti tiene immobile.

«Pronto» ho detto con la bocca impastata e il ventre contratto dalla paura.

«La signorina Sara Pace?» mi chiede una voce che riesco a malapena a sentire.

«Si, sono io».

Sono io, si.

O, meglio, quel che rimane di me, ma pur sempre io, nonostante i cocci sempre più piccoli sparpagliati sul quel pavimento di parquet, di cui ormai conosco ogni venatura.

«Signorina, la chiamo per la candidatura che ci ha inviato qualche giorno fa» mi dice.

La candidatura? Che candidatura? Non ricordo nulla, ho un vuoto nella testa. Ho davvero inviato una candidatura? E per cosa? E a chi?

Rimango in silenzio.

«Pronto, c’è ancora?»

«Si», dico, e intanto il sangue ricomincia a scorrermi nelle vene e a correre veloce verso il cuore che inizia a pompare a mille.

«Si, ci sono» balbetto. «Si, la candidatura. Certo. Mi dica» rispondo subito dopo con una disinvoltura che mi arriva non so da dove.

«Ah, eccola. Si, volevo fissarle un appuntamento, se è ancora disponibile»

Un appuntamento. Per un lavoro. Se sono ancora disponibile. Non riesco a mettere insieme le tre cose. Provo a visualizzarle e a renderle più chiare. Non le vedo. O meglio, le vedo affollarsi nella mia testa come delle furie che si rincorrono, per primeggiare, con il disordine che marchia ormai la mia vita da un tempo che mi sembra sia un secolo. Cosa devo dire? Cosa devo rispondere?

«Si!»  dico d’istinto. «Certo, sono disponibile».

***

Ho appena risposto ad un appuntamento di lavoro. Provo emozioni contrastanti. Ne sono sopraffatta. Non voglio andarci. Non ce la faccio. Non sono in grado. Ma devo andare. Un lavoro mi serve. No, ora richiamo. Mi mancano le forze. Non ho più un soldo. Sono uno straccio. Non mi prenderanno mai.

Uscire là fuori mi lacera dentro. Sono ormai priva di vibrazioni positive. Sento la paura che mi afferra e devo tirarmi via da casa con una tenaglia attaccata all’anima.

– Fallo! – mi dicevano tutti -Vedrai che poi sarà tutto più semplice –

Tutto più semplice. Certo, semplice: come quando mi afferra da un braccio e mi dice di non andare; come quando gli racconto di me e diventa pazzo al solo pensiero; come quando io faccio e lui distrugge; come quando io chiedo e lui pretende; come quando ho smesso di crederci perché non avevo più niente in cui credere; come quando ogni cosa di me è morta, anche i pensieri, che adesso so solo vedere accavallati uno sull’altro a fare orge di piaceri incontrollati, che piaceri non sono, ma producono emozioni moleste e ripugnanti.

La nausea è la mia amica di infiniti giorni, questi giorni che mi separano dall’uscire dal mio involucro che guardo come fosse un guscio di noce, difficile da fendere e aprire in due pezzi perfetti.

***

Stanotte ho sognato di scavalcare degli ostacoli. Erano alti, ferrosi, sembravano cancelli chiusi e sono diventati, improvvisamente, l’anticamera di un godimento. Li ho scavalcati come fossero dei giochi. Sembravo una gazzella dalle gambe lunghe e agili e mi sentivo felice. Ciò che ho sentito era simile ad un orgasmo. Di quelli profondi, che ti scavano l’anima.

Mi sono ricordata di me. Mi sono ributtata in mezzo alle cose e ho scoperto di esserci.

***

Entro in auto. Cerco la chiave nella tasca dello zaino, ma ce l’ho in mano: ho appena aperto l’auto per entrarci dentro.

– Stai calma – penso.

La chiave entra liscia nella sua sede e accendo il motore. La spia rossa della benzina mi acceca. Inizia a lampeggiare forsennatamente. Spengo il motore.

– Sono bloccata – mi dico – Cosa faccio? –

Scendo dall’auto e inizio a camminare. Mi dirigo verso la fermata del bus. In un istante mi passano in testa una miriade di pensieri. Sono come mostri che ballano, ridono, si divertono. E io ne subisco la forza, la violenza, l’indisturbata presenza.

– E se mi scopre? Se arriva a casa adesso? Se qualcuno mi vede e glielo riferisce? –

Il percorso fino in centro mi sembra eterno.

Guardo fuori dal finestrino, ma con un occhio sono attenta a ciò che sta dentro. Osservo ogni movimento di chi mi passa accanto. Ne sono spaventata e non so come nasconderlo. Metto su le cuffie e faccio come fanno i giovani disinvolti di oggi che se le infilano nelle orecchie e si fanno scivolare tutto addosso.

Parte la musica e l’ansia si placa.

Quando carica d’anni e di castità / Tra i ricordi e le illusioni / Del bel tempo che non ritornerà /Troverai le mie canzoni / Nel sentirle ti meraviglierai / Che qualcuno abbia lodato / Le bellezze che allor più non avrai / E che avesti nel tempo passato / Ma non ti servirà più a niente / Non ti servirà / Che per piangere sui tuoi occhi /Che nessuno più canterà

Le mie emozioni iniziano a danzare.

***

«Sara Pace. Molto piacere»

«Si accomodi» mi ha detto.

Mi accomodo.

Ho un tremore che mi tormenta le gambe e mi accorcia il respiro. Provo una sensazione difficile da spiegare. Mi sento io, come se quella me non fosse mai morta.

Non lo so se è davvero così, ma sento che nella mia testa tutti quei cocci, piccoli e sparpagliati sul parquet, iniziano a riprendere vita e cominciano a ricomporsi e a ricomporre piccoli pezzi di me.

***

Rinasco seduta su una sedia, con un estraneo, di fronte a me, che mi parla di mansioni e di ore e di lavoro e di competenze da acquisire e di team di lavoro e di straordinari.

E io di straordinario ci vedo una sola cosa: bastava davvero poco.


Emanuela Gioia

Rispondi

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.