Perché Sanremo non è solo Sanremo

[Perché Sanremo non è solo Sanremo… pa pa pa…]

Due parole su Sanremo, quest’anno, mi sento di spenderle.

I motivi sono tanti, come tanti sono i pensieri che mi stanno arrovellando e che scalpitano per uscire e diventare parole, condivisione: in qualche modo, messaggi.

A conti fatti, non credo di aver mai (e dico mai!) perso un’edizione di Sanremo in tutta la mia vita. Nonostante ogni volta (e ogni anno sempre di più!) fosse uno spunto per arrabbiarsi un po’ di più, al netto di tutti i problemi con i quali ci troviamo, da “qualche” tempo, a fare i conti. Perché Sanremo non è solo Sanremo, ma è la messinscena più palese di quella subdola pochezza che si sta facendo sempre più strada nelle nostre vite, insinuandosi laddove trovi anche un solo piccolo pertugio per infilarsi e adagiarsi comodamente, tanto nessuno sembra più farci caso.

Sanremo è l’Italia tutta, perché cammina di pari passo con la società che appare, dando voce solo a ciò che tutti chiedono: le solite canzonette, la solita sfilata di uno sfarzo a cui nessuno può arrivare, ma che solo guardarlo riempie di nulla i desideri di molti. È l’inarrivabile che per 5 giorni diventa sguazzo di gossip e di pettegolezzi, con intermezzi discreti che non ammettono distrazioni di sorta, altrimenti ti scappa il momento e quel poco che potevi salvare te lo sei pure perso.

Perché lo guardo?

Ad essere sincera, me lo chiedo tutti gli anni. E tutti gli anni diventa un modo per darmi risposte sommarie e senza senso, per finire con la solita frase: l’anno prossimo etc etc…

In realtà ci sono dei motivi ancestrali che mi riconducono, ogni volta, a farmi acchiappare da quella calamita di follia: dacché ho memoria, a casa mia Sanremo, come la musica in ogni sua forma possibile, è sempre stato un momento di condivisione familiare felice. Non una cosa da subire e basta, ma un momento organizzatissimo che prevedeva un mangianastri collegato alla tv e qualcuno che schiacciasse il tasto Rec ad ogni inizio canzone e il tasto Stop ad ogni fine. E ogni tanto ci scappava in mezzo pure qualche applauso prolungato, e a volte la voce di Pippo Baudo, che poi ci divertivamo a commentare ogni volta che in macchina ascoltavamo il nastro durante qualche gita fuori porta. Dunque il perché lo conosco bene e non gli oppongo resistenza mai, perché, mi dico, ogni tanto va bene anche questo: lasciarsi andare alle emozioni più belle e più pure, provando a rimanere in quel perimetro, e difenderle anche dalle proprie rimostranze.

Sanremo e/è l’Italia.

Sanremo è l’Italia, dicevamo. E quest’anno è stato in grado di tirare fuori un sibilo tremante di disappunto che si è fatto spazio tra le tante voci.

Tra le solite noiose parate di abiti sfarzosi, ospitate inutili che lasciano vuoti immensi, siparietti forzati di intrattenimento, che altro scopo non hanno se non quello di rendere ogni cosa ancora più inutile, una voce di disappunto è finalmente uscita fuori, trovando ogni sera più spazio, grazie a certe voci fuori dal coro che si sono aperte ad una scena che mai avrebbero calcato in tempi non sospetti, e che è diventato un modo per farsi sentire, forse perché l’unico in questo momento, ma di sicuro a largo raggio e, evidentemente, amplificato.

Voci diverse, che di solito parlano ad un pubblico che ne recepisce il messaggio, si sono date occasione di parlare a chi ancora non sa capirli, perché non è in grado di ascoltare le trame sottese al loro urlo di dissenso, ma si è trovato spiazzato di fronte ad una lingua diversa, che racconta una realtà che ci sta provando in tutti i modi a rompere certi schemi e certi stereotipi radicati nella coscienza più profonda di noi “boomer”, tanto da rendere la kermesse più attesa dell’anno “noiosa”, “brutta”, “la più brutta di sempre”.

Io quest’anno per la prima volta voglio dire grazie a Sanremo. I motivi sono tanti, davvero. Il primo tra tutti è che dopo diverso tempo che non succedeva, ha riportato mia figlia sul divano con me a guardare e commentare insieme qualcosa. E credetemi: dobbiamo imparare ad ascoltarli ‘sti ragazzi, perché nonostante ciò che appare – o che noi siamo in grado di vedere -, oggi sono loro che ci stanno insegnando che i fiori non si regalano solo alle donne; che la parità di genere non è solo sforzarsi di accettarla, ma capirla nel profondo e renderla la normalità; che gli stereotipi sono figli dell’individualismo, e anche l’esatto contrario; che non è bastata una pandemia a farci cambiare punto di vista, ma anzi, siamo ancora più brutti e conformisti e incapaci di ascoltare e guardare e sentire; che “il pregiudizio è una prigione” e bisogna avere il coraggio di uscire dalle proprie convinzioni, e dalle proprie zone di comfort, altrimenti si finisce tutti nei buchi neri; che niente è ciò che appare e per capirlo bisogna essere attenti a tutto, ad ogni singola cosa che prova a dire cose diverse e ad essere ascoltata: anche quando ci sembra troppo piccola, anche quando risulta “cringe”, soprattutto quando sembra essere distante da noi e non appartenerci.

E soprattutto che c’è altro oltre a Orietta Berti e non è detto che le due cose non possano convivere, completandosi e aprendo le porte ad un futuro migliore.

La mia classifica, in ordine sparso:

  • Willie Peyote – Mai dire Mai (La Locura)
  • Madame – Voce
  • Colapesce & Dimartino – Musica leggerissima
  • Lo Stato Sociale – Combat Pop.

Emanuela Gioia

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