“Ho scoperto una certa semplicità che alcuni chiamano maturità. Preferisco però rimanere immaturo. Andando avanti con gli anni, si scoprono cose non necessarie e anche nel cinema succede questo. Probabilmente, in futuro farò film più semplici”.
Paolo Sorrentino
Questo pezzo lo devo a Paolo Sorrentino.
Eh sì. Glielo devo perché come prima cosa voglio dirgli grazie per avermi concesso – finalmente – quella occasione che in cuor mio stavo aspettando da tempo, ossia la possibilità di ricredermi, di ristabilire un contatto con il suo mondo e con la sua anima che per troppo tempo ho fatto fatica ad incontrare totalmente, specie dopo aver scritto le mie impressioni su “La grande bellezza”, su cui tante volte sono tornata, rileggendole e rimuginando su ciò che avevo scritto – e sentito – dopo la visione di quelle immagini che, ogni volta, trovavo come slegate e imposte da qualcosa che mi è sempre sfuggito.
Dentro di me ho sempre saputo che dietro a quel manierismo – che a me è sempre risultato forzato e a tratti inutile e fastidioso – c’era qualcosa che surclassava quell’apparente inganno delle parti, eppure guardando i suoi film il sentimento che ha costantemente prevalso in me è stato quello di rimanere appesa a delle emozioni contrastanti e confusionarie, che mi hanno sempre lasciato in bilico senza farmeli mai amare totalmente.
“È stata la mano di Dio”, invece, ha finalmente ristabilito una sorta di ordine, spianando, man mano che le immagini scorrevano sullo schermo, quella solita tensione che ho sempre provato guardando le pellicole di Sorrentino.
Le prime immagini danno subito un accenno di un cambio di rotta e, nonostante le successive e immediate ricadute in quegli stilemi soliti che lo hanno sempre contraddistinto e che, nello specifico, hanno sempre un po’ urtato la mia percezione del suo racconto, la storia di Fabietto, che è poi l’alter ego di Paolo, riesce finalmente a rimuovere totalmente tutti quei filtri che per molti hanno rappresentato la forza stilistica del regista.
Presenti ancora nella prima parte del film, quando Fabietto osserva senza parlare, scompaiono del tutto quando la forza e la potenza di tutto il racconto sono affidate alla memoria, alla verità senza filtri e senza inutili artifici o storpiature o caricature. Perché quando si toccano certi argomenti e certi ricordi, i filtri non hanno più alcuna funzione se non quella di forzare inutilmente ciò che in maniera naturale tocca le corde di tutti.
Fabietto, oltre ad essere l’alter ego di Sorrentino, rappresenta una generazione intera: la mia, la nostra, quella dei figli degli anni ‘80 ancora pregni di valori alti e di una interiorità integra al punto da fare a botte con tutto ciò che intorno stava cambiando in maniera irreversibile, ma anche quella dei figli del Sud, che cercano di affrancarsi da tutta una serie di luoghi comuni che non offrono possibilità di emancipazione culturale, men che meno intellettiva e mentale. E Fabietto è figlio di quegli anni e di quei luoghi, in cui si sente spaesato e in cui, dopo la morte dei genitori, non ha più voglia di restare perché la realtà “non gli piace più”, perché “la realtà è scadente”, ed è per questo che decide di fare il cinema.
“Guardare è l’unica cosa che so fare”- dice Fabietto ad un certo punto. Ed è lì che Il film prende la piega della sua vera inclinazione, proprio attraverso il disvelarsi di quello sguardo assorto che ci insegue in tutta la prima parte del racconto. Un po’ come se volesse creare uno stacco, una divisione netta che passa proprio dall’osservazione all’azione.
Fabietto ci racconta, finalmente, quello sguardo solitario e assente, spesso tacciato di snobismo e antipatia, che ha sempre contraddistinto Paolo Sorrentino. Uno sguardo che non ha mai mentito, a differenza – per quel che riguarda la mia personale percezione – dei suoi film. Quello stesso sguardo che, evidentemente, è riuscito a penetrare anche l’anima di Capuano, suo maestro, che nella scena più potente di tutto il film dice a Fabietto: “non ti disunire”.
Un consiglio, un avvertimento, una esortazione a rimanere sé stesso, a raccontare il suo dolore, a non cadere nella trappola di cercare al di fuori da sé ciò che quel suo sguardo, senza mentire, aveva saputo già raccontare toccando le corde di colui che lo inizierà al mestiere del cinema.
Una sorta di profezia che si è finalmente rivelata con questa storia – che è la storia del suo dolore – che da troppo tempo aspettava di essere raccontata, come lo stesso regista ha rivelato. Era questa la sua “cosa da raccontare”, ma quando Capuano chiede a Fabietto “ce l’hai una cosa da raccontare?” lui rimane senza una risposta.
E, in effetti, quel ragazzo spaesato di fronte a quelle urla potenti che, evidentemente, gli lacerano l’anima, dovrà passare attraverso altre strade – e altri racconti – prima di capire che per arrivare dritti al centro si può anche sbandare, ma che si arriva solo quando si sa davvero dove si vuole andare.
Ed è questo che è successo a Paolo Sorrentino: nonostante il suo essersi disunito da sé stesso per molto tempo, quel grido, quella esortazione, quell’avvertimento quasi paterno di Capuano gli entra dentro come una lama, giacendo appartata nella sua anima e rimandosene silenziosa, a volte, ma venendo fuori, seppur timidamente, altre volte. Come ci raccontano molti frammenti, infilati tra scene grottesche e caricaturali, de “La grande bellezza”, in cui i contenuti emozionali ed emotivi di Sorrentino, quelli che senza veli trapelano da quel suo sguardo assorto e quasi assente, spezzano in qualche modo l’ordine delle cose intrufolandosi in mezzo a quel mondo oscuro e apatico che rimane appeso al nulla che rappresenta.
Quando Fabietto smette di guardare e basta, allora scatta la seconda fase della sua vita, dove sarà un nuovo modo di confrontarsi con il dolore a fare da spartiacque. Guardandolo e riconoscendolo, Sorrentino si è dato la possibilità di raccontarlo in maniera pura, senza dover ricorrere a interpretazioni e performance poco persuasive, dettate, forse, più dal bisogno di celare una ferita difficile da articolare, nonostante l’urgenza di tirarla fuori.
Un limbo in cui stazionerà per molto tempo, provando ad uscirne seguendo strade che, probabilmente, non gli appartenevano fino in fondo, fino a vedere la luce proprio con il racconto, reale e realistico, del dolore: quel dolore che Capuano gli aveva fatto vedere e tirare fuori e a cui Fabietto si aggrappa per provare a ricominciare e staccarsi da una vita che non gli piace più.
Perché il dolore non scappa: segue altre strade, prova a confondersi, ma rimane lì, ristagna silente, si trasforma in rabbia, certe volte si nasconde, altre volte urla, finché non trova il modo di uscire e di farlo nel modo che merita per trovare quella pace che ha sempre cercato.
Emanuela Gioia