Sicilia, terra di ritorni
Non è facile entrare nel labirinto siciliano e non è facile uscirne. Ma è vero che una volta entrati si rimane catturati e affascinati da un insieme di immagini che sono memoria e fantasia, storia e leggenda, realtà e immaginazione. È il “caos”, come Pirandello ha detto della sua terra, un triangolo in mezzo al Mediterraneo che è quanto di più vasto possa raccogliere in sé una piccola terra; nella natura, con la grande varietà di terreni, argille, lave, tufi, rocce, gessi, minerali, montagne, vulcani, come nella storia, la quale, quasi per un processo imitativo, si inserisce con un vasto campionario di razze e di civiltà, passate per la Sicilia senza trovare mai un amalgama tra di loro, ma lasciando dei segni tangibili che sono diventati memoria di una cultura ancora presente in ogni sua sfaccettatura.
Dunque, come Pirandello, ogni siciliano può dire sono figlio del caos; ogni siciliano non può che essere fortemente segnato da questa nascita, principio di una inquietudine che è anche, e soprattutto, una ricchezza culturale.
Tutto il malessere e l’infelicità storica che da sempre si può cogliere nel difficile modo di essere uomo di quest’isola, continuamente smarrito e alla ricerca di un’identità storica e culturale, è frutto dei segni che la storia siciliana, ricca, stratificata e densa di molteplicità, ha saputo lasciare in eredità, portando molti a cercarne una spiegazione attraverso la scrittura.
Tutta la grande produzione letteraria siciliana mette, infatti, in evidenza la condizione sociale di questa terra, caratterizzata dal sentimento del distacco, da una voglia di riscatto che suscita il bisogno di fuggirne, di allontanarsene, di evaderne.
Per gli scrittori siciliani, raccontare la Sicilia ha significato, dunque, fare i conti con una storia nient’affatto lineare. Dominazione dopo dominazione, questa terra è uscita lacerata, ha conosciuto il mescolarsi delle razze, il trionfo e lo sfruttamento, è morta ed è risorta, e la Storia ha finito con l’insegnare che questa precarietà del destino ha illuminato i fatti e i pensieri di molteplici bagliori, per cui, quando si è cercato di capire o rinvenire una precisa identità siciliana, tutto è finito col sembrare una Babele: di linguaggi, di costumi, di mentalità, di sentimenti.
E Vincenzo Consolo, scrittore siciliano non solo per nascita ma per tradizione e carattere, riflette nella sua opera letteraria tutto il suo essere siciliano, il peso della sua sicilianità, di una appartenenza culturale che diventa la ragione prima della sua scrittura.
Siciliano, dunque. Emigrato. Di una emigrazione che ha avuto per approdo un mito: Milano.
Un mito di civiltà che si è sgretolato velocemente sotto i colpi di un processo di aziendalizzazione della vita pubblica e di svuotamento di moralità e idealità nella vita privata, in cui, dappertutto, sembra trionfare l’effimero, uno stile di vita improntato al più cinico e sfacciato edonismo, alimentato da facili e rapidi arricchimenti.
Consolo assiste all’involuzione civile, morale e ideale di quella metropoli-mito, e alla contemplazione delusa affianca una nota costante di malinconico rimpianto, che diventa nostalgia, a volte anche struggente, omerica, per la sua Sicilia. Non per come è ma per come era. Una nostalgia che è essenzialmente amore, che sembra possibile solo a condizione che l’oggetto sia lontano, nel tempo più che nello spazio.
Non per niente il nòstos, radice etimologica di nostalgia, è un tema ricorrente nei suoi scritti; un ritorno quasi sempre amaro, vissuto consapevolmente nella segreta e vana speranza di fare piazza pulita di quei Proci che assediano la sua Itaca, la deturpano, la offendono, la depredano delle sue ricchezze, della sua memoria.
Alcune sue opere in particolare – Retablo; L’olivo e l’olivastro; Lo Spasimo di Palermo –, sono, sia strutturalmente sia da un punto di vista narrativo, dei veri e propri nòstos, dei viaggi verso la Sicilia e la metafora che essa rappresenta, ma, nonostante queste lo siano più delle altre, non si può evitare di percorrere l’intero itinerario segnato dalle opere narrative di Consolo, seguendo quell’espressione (condizione) del viaggio di espiazione, attraverso una Sicilia scandagliata in ogni sua parte, di chi, colpevole d’aver lasciato la nativa terra, ritorna ogni volta alla ricerca di un mondo che pare non essere mai esistito, lontano nello spazio e nel tempo.
Ogni opera dello scrittore siciliano è un’Odissea. Tutte le sue narrazioni, sin dall’esordio de La ferita dell’Aprile, si costruiscono sullo schema della fuga e del nòstos, del ritorno doloroso a Sud, come specchio inevitabile della conoscenza di sé.
Incide su questo l’esperienza dell’emigrazione, dello sradicamento, esperienza ad un tempo individuale e culturale; e tutti i suoi libri diventano i capitoli di quell’ unico libro che racconta il suo peregrinare nel mondo della narrazione.
Un peregrinare che, attraverso le sue opere, percorre e scandaglia il motivo del viaggio di ritorno, il quale subisce, man mano che la narrazione procede in avanti, una evoluzione/involuzione. Partendo dall’idea di viaggio, introdotta da Vittorini nella letteratura siciliana, come movimento, come punto di partenza per la conoscenza di sé e la consapevolezza dei “nuovi doveri”, quasi una espiazione delle colpe, i ritorni di Consolo diventano consapevolezza di un mondo depredato dai “mostri”, privo di memoria, in cui nulla più potrà mai essere quello che è stato; come un Ulisse è costretto a vagare per mare, perché il suo non è più dolore per il ritorno, ma dolore del ritorno:
«…che in pietra si muti la barca, si saldi al fondale prima d’ogni ritorno, poiché nel ritorno, così nel racconto, consiste lo strazio.»
L’olivo e l’olivastro
Il suo nòstos diventa, così, malattia e non rimedio; la sua memoria è nostalgia che si trasforma, attraverso il racconto, in testimonianza di ciò che è stato.
La scrittura come narrazione
Il ricordo. La memoria.
Sono questi gli elementi che danno la possibilità a Consolo di esprimere la sostanziale differenza che esiste tra lo scrivere e il narrare.
È il “salto mortale” che l’autore compie attraverso la sua scrittura, che è specchio di una esperienza, prima di tutto personale, che si riflette poi nel suo “viaggio letterario”, nei suoi ritorni in una Sicilia ormai divorata dai mostri.
I mostri di oggi si nascondono nel tentativo, da parte di un potere politico ed economico, di uniformare e globalizzare ogni cosa, e il prezzo da pagare è la cancellazione di quelle che sono le piccole identità culturali.
Il compito dello scrittore, pertanto, è quello di recuperare la coscienza del passato e del presente, di rinvenire la memoria per uscire dalla attuale condizione di alienazione che rischia sempre più di cadere in una sorta di distacco dalla realtà. Si vive in un presente assoluto, privo di passato e senza prospettive per il futuro. Anche il linguaggio, il nostro linguaggio, quello della tradizione, viene cancellato, surclassato da un nuovo “idioma” che è quello dei media, dell’informatizzazione, che risulta completamente estraneo alla nostra memoria:
[…]lo stile, la scrittura sono inscindibili dalla memoria. Memoria lontana di cose viste e udite, di cose lette, con cui la memoria vicina, il ricordo si fonde e prende forma e senso.
E Consolo si serve anche del suo lavoro lessicale, che consiste in una sorta di scavo filologico, di ricerca in profondità e nel tempo, per recuperare e vivificare .
Con la sua idea di scrittura vuole rompere il codice linguistico tradizionale per innestarvi le voci che discendono dalle radici greche, spagnole, arabe della sua terra. Prova, fin dalle sue prime esperienze narrative, a distaccarsi, in modo perentorio, dal codice linguistico stabilito dal “potere”, tenendosi accortamente lontano da ogni sorta di gruppi d’avanguardia o retroguardia, puntando all’espressione, in un mondo in cui la comunicazione era ridotta al minimo necessario. Tutto ciò che vuole comunicare sta, infatti, nella scrittura stessa: ogni parola, ogni immagine, diventano espressione di quello che può voler dire “differenziazione”: dall’afasia del potere economico, politico e dei nuovi letterati (Gruppo ’63). Tutto è concentrato sul ritmo, sul suono, sul significato delle valenze sonore delle parole.
La lingua, lo stile di uno scrittore, possono essere paragonati ai colori che compongono un quadro: i colori di Consolo sono più affollati, meno visibili, devono essere interpretati, e questo significa che richiedono, da parte del lettore, una maggiore partecipazione e attenzione. È il lettore che deve muoversi verso lo scrittore e non viceversa, e i suoi libri non puntano ad essere dei best-sellers, piuttosto seguono il destino della poesia.
Ma lo scrittore non è soltanto custode della lingua: ha una funzione civile che non prescinde dall’azione sociale della scrittura. È il tutto che fa il contenuto. E quello di Consolo non è mai di tipo intimistico o esistenziale.
Scrive in Retablo:
Sembra un destino, quest’incidenza, o incrocio di due scritti, sembra che qualsivoglia nuovo scritto, che non abbia una sua tremenda forza di verità, d’inaudito, sia la controfaccia o l’eco d’altri scritti.
La scelta dei temi storico metaforici, che permettono di parlare del passato per illuminare il presente, oltre alla scelta del linguaggio di tipo palinsestico, che è una scrittura su altre scritture (la metafora espressa da Retablo), sono due delle caratteristiche principali che distinguono lo scrittore Consolo, impegnato con la storia, impegnato con le vicende della società, e allo stesso tempo molto attento alla forma, che si serve di una scrittura di tipo sperimentale. Al contrario degli avanguardisti, però, che operano una sorta di azzeramento del linguaggio, costruendone, su questo, uno artificiale, che esprima e rispecchi il caos della contemporaneità, Consolo tiene conto di quelle che sono le istanze del tempo in cui scrive, cercando di trasferirle nella scrittura, nella narrazione, cioè di far coincidere il libro con il tempo in cui opera, anche se il romanzo è di sfondo storico, attualizzandolo attraverso la metafora e facendolo sembrare specchio della contemporaneità.
La scrittura di Consolo ripone, dunque, nella metafora tutto il suo “essere”, che si trasforma poi in “divenire” proprio grazie ad essa. È l’autore stesso che ci spiega come la metafora diventa l’elemento essenziale che distingue lo scrivere dal narrare:
Con lo scrivere si può forse cambiare il mondo, con il narrare non si può, perché il narrare è rappresentare il mondo, cioè ricercarne un altro sulla carta. Grande peccato, che merita una pena, come quella dantesca degli indovini, dei maghi, degli stregoni.[…] Però il narratore dalla testa stravolta e procedente a ritroso, da quel mago che è, può fare dei salti mortali, volare e cadere più avanti dello scrittore, anticiparlo…Questo salto mortale si chiama metafora.
Il “divenire” della scrittura come metafora della vita si estrinseca attraverso la funzione dell’intellettuale, del narratore, che è, per Consolo, quella di cercare l’ordine, la ragione di fronte al caos di sempre, cogliendo, in tal senso, la «Sfida al labirinto» lanciata in quegli anni da Calvino, sulle pagine del «Menabò», alla letteratura contemporanea.
E l’ordine, per Consolo, è il ritorno alla memoria. Nella sua idea di scrittura la memoria diventa un viaggio a ritroso, un immergersi nel passato per reinventarlo e, grazie alla potenza del ricordo, ricostruire il tempo, cambiandone la direzione. Dunque l’ «… ordine per mezzo del tempo, tratto caratteristico dello scrittore malinconico»
In virtù della disillusione storica, perché in questo nostro tempo la storia non è più maestra di vita e l’uomo, inteso come “umanità”, continua a fare gli errori della storia, Consolo stabilisce la sua funzione chiarendo il compito della letteratura come lotta contro il potere e contro la perdita della memoria, per appagare il desiderio di andare oltre la storia, di superarla, liberando la malinconia di chi non può più fare niente, perché tutto è già accaduto, dal carcere del tempo.
Le metafore di Consolo sono intrise di memoria, di ricordi, sono un mare di purificazione, di catarsi, in cui l’autore affonda dolcemente per poi risalire, riemergere dal fondo della memoria linguistica e storica della sua cultura, e «portare alla luce una intuizione profetica».
Nella modernità, le colpe non sono soggettive, ma oggettive, sono della storia . I mostri non sorgono più dal mare, dalla profondità del subconscio, ma sono mostri concreti, reali, che tutti noi abbiamo creato […]. Nessun viaggio penitenziale e liberatorio è ormai possibile… questo, secondo me, lo scrittore oggi ha il compito di dire, di narrare.
Ma è nell’ evolversi del racconto, dei suoi racconti, dei viaggi, dei suoi nòstos, che ogni volta diventano, sempre più, consapevolezza del nulla, del buio di un’epoca in cui la memoria diventa materia da cancellare, che Consolo si evolve, si rivede sempre più, ulisside dei nostri giorni, prigioniero della malinconia, della memoria di ciò che è stato e che non può più essere, condannato all’erranza eterna, per espiare le colpe della modernità.
Dunque, i nòstoi di Consolo non sono più, o meglio, non possono più essere i nòstoi di Vittorini, non sono più ritorni nell’Itaca delle radici della memoria per acquisire quella coscienza di sé che consente all’eroe di ripartire per adempiere ai “nuovi doveri” che l’attendono.
Credo sia questo il destino d’ogni ulisside d’oggi, di tornare sovente nell’Itaca del distacco e della memoria e di fuggirne ogni volta, di restare prigioniero nella reggia d’Alcinoo, in quel regno di supposta utopia, d’irreale armonia , condannato a narrare all’Infinito, come un cieco cantore, un vecchio svanito, i suoi nostoi, le se odissee.
Emanuela Gioia