Il nóstos e la tragedia greca ne Il figlio del mare di Eliana Iorfida

La Calabria è da sempre terra di partenze e, in virtù di questo, si configura facilmente come terra di ritorni. Ritorni che quasi sempre diventano dolore più che consolazione, perché rimangono intrappolati nel labirinto di una memoria che diventa sempre più lontana e sfuggente, ma dalla quale non si può prescindere. Non si nasce in un luogo senza esserne segnati: anche quando ci si allontana, certi luoghi tornano sempre, e sempre si presenta la possibilità che diventino approdo ultimo di quel viaggio interiore alla ricerca di sé.

Ed è proprio sul viaggio di ritorno, quel nóstos, che è il viaggio per antonomasia, la cui origine risale al viaggio che Ulisse compie per tornare alla sua Itaca, che si muove l’ultimo libro di Eliana Iorfida, Il figlio del mare, edito da Pellegrini editore.

Il viaggio è quello del ritorno a Sud di Jo, figlio di Bianca Faragò, una giovane donna che vive in un paesino della Calabria jonica e che in una notte di stelle, dopo la festa più bella dell’estate, subisce una violenza di cui si accorgerà soltanto al suo risveglio, “quando il vento di giugno l’aveva svegliata”: come una Leda sulle rive del mar Jonio che “vinta dal sonno, si era lasciata cadere sulla spiaggia e il mare l’aveva fatta donna.”

Da questa unione, in cui Bianca continuerà a credere fino alla fine dei suoi giorni, nasce Jo – diminutivo di Jonio –, il “figlio del mare” che porta il nome di un padre ideale e simbolico.

Un legame che fin dalle prime righe del racconto impasta la storia di mito e leggenda, trasportando il lettore in una dimensione magica e ancestrale e a quel legame tra femminilità e magia, tipico della tradizione popolare, che in qualche modo riporta alla cultura del mondo greco e ad alcune figure femminili e ai miti di cui sono protagoniste.

Era davvero figlio del mare e di una giovane donna di nome Bianca, agitata da mille demoni; oppure era un uomo venuto dal nulla, un innesto esotico sbocciato suo malgrado, con una madre e un padre designati a tavolino da una legge che aggirava tutte le altre?

Forse appartenere a quella terra precaria significava esattamente questo: essere o non essere. Che fosse l’estremo limite geografico, proteso verso un sud ancora più profondo, o l’energia tellurica capace di sprigionarsi dalle viscere del sottosuolo da un momento all’altro, sbriciolando ogni cosa in una manciata di secondi, sta di fatto che l’essenza transitoria di quel luogo si ripercuoteva sulla sua gente: paesani del mondo, questo erano i calabresi. Uomini e donne condannati ad andare e tornare per generazioni (…)

Il ritorno a Sud di Jo, nella sua configurazione di tempo e di spazio, è un ritorno a casa che, come tutti i ritorni della letteratura, assume un valore simbolico di ritorno alle origini, alle radici dell’anima, ad una casa che è uno spazio fisico, ma che diventa l’emblema di quella ricerca interiore verso la conoscenza di sé.

Tornare. Un verbo a orologeria, potente come l’esplosione di un ordigno. (…)

Il viaggio in macchina fungeva da contraltare a quello di sola andata, compiuto con i genitori a bordo della lancia Thema color granata nel lontano 1991: serviva a barattare la rabbia del bambino di ieri, che gli aveva tenuto compagnia per tutto il tempo sul sedile posteriore, con la consapevolezza dell’uomo di oggi, ben saldo alla guida di un lussuoso fuoristrada e del proprio destino.

È un ritorno, quello di Jo, che somiglia poco al “brutto ritornare” di Babel de L’uomo nel labirinto – e in generale dei personaggi inquieti di Corrado Alvaro, sempre in fuga e sempre insoddisfatti -, il quale diventa una sorta di inganno in cui non solo non c’è consolazione, ma solo la totale distruzione di sé stessi, mentre si avvicina molto al nóstos Vittoriniano di Conversazione in Sicilia. Un ritorno che è prima di tutto ricerca di significato e di verità, una discesa nella terra delle madri da cui attingere nuova linfa per poter risalire verso una nuova consapevolezza, che gli consentirà di vivere la sua vita circoscrivendo la sofferenza provocata da uno strappo acerbo alla madre e alla terra.

E la madre e la terra, ne Il figlio del mare, si uniscono in un unico destino narrato dalla medesima storia: la storia di una terra – che è madre -, che ama i suoi figli, ma è costretta a lasciarli andare, nonostante i tentativi di tenerli stretti a sé, perché incapace di evitare il passaggio forzato nelle braccia di altre madri, e di altre terre, tenendo per sé la speranza che un giorno possano decidere di tornare.

Primo stàsimo:

Il figlio del mare al destino segnato dall’onda:

Un viaggio di orme perdute lungo la battigia.

Andare e tornare, come la marea,

come gli eroi greci, le rondini o la ruota del tempo.

Un viaggio amaro di fiele, pane e zucchero;

pietra tombale e risurrezione di bulbi.

L’oracolo della terra è la profezia dell’acqua

a scindere il cielo meridiano dalle sue stelle.

La presenza, ideale e fisica, del mar Jonio fa da cornice alla storia. 

Nonostante il viaggio non avvenga per mare e nonostante i tempi del racconto siano distanti dal mito di Ulisse, la storia di Jo, e di sua madre Bianca, nasce dal mare Jonio e, proprio come il mar Jonio, è una mescolanza di mito e di modernità, tenuti insieme da un’orditura narrativa che ha l’intensità e l’impostazione della tragedia greca.

Una impostazione che, come la stessa Eliana ci dice, «non è solo formale, ma sostanziale», nella misura in cui ogni piega di ciò che fa parte di quella origine che fu la Magna Grecia, appartiene alla Calabria e non può che appartenere a chi di questa terra è figlio, che nella cultura classica, nel mito, nella tragedia, rintraccia un legame identitario che spesso trova compimento in quel sentimento di inquietudine che altro non è se non l’eredità di una colpa atavica.  

Il Nóstos e la  tragedia greca, dunque, che in comune hanno quel sentimento di angoscia e dolore che accompagna chi ne è protagonista durante tutta la vicenda, e che ne Il figlio del mare rincorre Jo da sempre, si muovono sulle stesse orme: quelle dell’attesa, e del compimento, del ritorno ad un luogo che non è più fisico, ma diventa un luogo interiore, fatto di memoria, di sentimenti, di ricordi, di legami ancestrali.

Due percorsi diversi che convergono verso lo stesso obiettivo, che non è quello di condurre il protagonista verso una destinazione, quanto accompagnarlo al punto di partenza, là dove tutto ha avuto origine, per permettergli di immergersi in quella colpa e in quel dolore e attraversarli alla ricerca di una catarsi che lo ripoterà all’inizio di ogni cosa. Due percorsi che riportano a quel senso dei luoghi di cui è difficile liberarsi: a quell’appartenenza che riduce la libertà ad un destino prestabilito.

Così Jonio torna a Sud per ritrovare ciò che è custodito nei meandri di una memoria che lo tiene ancorato a quel dolore e a quella colpa e, attraverso la ricerca di sua madre, compie un viaggio che diventa consapevolezza soprattutto di sé stesso, quel passaggio “dalla non conoscenza alla conoscenza”- che Aristotele rintraccia nella catarsi che si compie nella tragedia -, di quella parte di sé rimasta nell’ombra, piantata in quei luoghi e mai sradicata totalmente, e che grazie al suo destino imparerà a conoscere davvero per riconoscere sé stesso.

Emanuela Gioia


TITOLO Il figlio del mare

AUTORE Eliana Iorfida

EDITORE Pellegrini Editore

ANNO DI USCITA 2020

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