L’Utopia tra le nebbie della memoria.
Il sogno naufragato.

Utopia Naufragio
Ivan Konstantinovic Ajvazovskij – Gibilterra di notte

C’è stato un tempo in cui gli emigrati eravamo noi.

Un tempo, non troppo lontano, in cui una valigia di cartone – dove riporre speranze piegate con cura – era tutto ciò che si possedeva e tutto ciò a cui aggrapparsi.

Un tempo in cui partire voleva dire lasciare per sempre la propria terra, ma soprattutto significava resistere: alla fatica, al distacco definitivo, all’incognita di un viaggio che intravedeva il sogno, ma sapeva di paura e dolore.

Un tempo in cui si saliva a bordo di navi e piroscafi con il cuore gonfio di nostalgia e gli occhi pieni di un futuro che era tutto da inventare. E il mare diventava, al contempo, nemico e alleato, ostacolo e promessa.  

Erano – quelli – viaggi che avevano un valore smisurato. Non erano mai semplici spostamenti fisici, ma traversate bagnate da onde e lacrime che sfidavano il destino e davano origine a veri e propri riti di passaggio, a cambiamenti vitali che mutavano, poi, in cicatrici dell’anima e in memorie che rimanevano sospese, in balia di quelle onde che cullavano persone, ma soprattutto storie: cucite sui volti e nelle mani piene di fatica.

Era il tempo in cui si cercava una vita migliore e in quel cercare, spesso, si incontrava la morte.

L’inizio di un sogno e la frattura di un paese

Se c’è una data che può farsi simbolo dell’inizio dell’emigrazione di massa, quella è certamente il 17 marzo 1861, data che segna la nascita dell’Unità d’Italia e, al contempo, l’inizio di un lungo periodo in cui il nostro paese si troverà ad affrontare molti momenti complicati. Una fase storica difficile, in cui ci si scopre uniti sulla carta, ma profondamente divisi nella realtà: tra Nord e Sud, tra chi resta e chi parte, tra chi si trova in alto e impartisce ordini e chi prova a sopravvivere tra mille incognite per il presente e per il futuro.

È un’Italia, quella appena nata, che fa fatica a trattenere i suoi figli. Le campagne sono povere, le città, impreparate e sovraccariche, non riescono a offrire nuove opportunità, il lavoro è scarso o inesistente.  

Per milioni di italiani, l’unica via possibile è quella oltreoceano. Si parte per gli Stati Uniti, l’Argentina, il Brasile, e l’emigrazione diventa quasi una contro-narrazione dell’Unità, un movimento silenzioso, ma fin troppo imponente, che svela una verità difficile da accettare: quella di un’Italia che nasce lasciandosi alle spalle frammenti della propria anima, disperdendo oltre oceano la sua memoria e le sue radici e frantumandosi, già sul nascere, nei volti e nei destini di chi, con una valigia di cartone, è costretto ad abbandonare tutto per inseguire un sogno.

Il 17 Marzo 1861 è, dunque, una data che fa da spartiacque, perché determinante per molti problemi socio-economici che portano l’Italia appena nata verso un periodo di grande depressione, causa principale di una lunga stagione di partenze che segnerà l’inizio della cosiddetta diaspora italiana.

Sono molti gli emigrati che sognano una vita migliore lì dove ogni cosa diventa possibile, almeno nei racconti di chi ha già compiuto il passo.

Un sogno che si concretizza con il viaggio su un piroscafo che attraversa l’oceano e che porta milioni di anime disperate alla ricerca di futuro più promettente e ricco di possibilità: un sogno di e per molti, ma che non per tutti riesce a diventare realtà e che per tanti, spesso, rimane solo un’illusione o, meglio, un’utopia.

Utopia naufragio

E, per uno strano segno del destino, Utopia è anche il nome del piroscafo –  simbolo di aspettativa e speranza per migliaia di emigranti italiani e non solo – che per molti viaggi aveva saputo trasformare quelle attese in realtà, solcando l’oceano con il suo carico di sogni e disperazione, e che dopo alcuni anni di traversate tra Napoli e New York, conclude il suo viaggio, e quello di quasi 900 persone che si trovano a bordo, precipitando nel buio del mare.
Appartenente alla nota Compagnia di Navigazione inglese Anchor Line, dopo essere partito da Trieste il 25 febbraio 1891, il piroscafo Utopia compie un intero giro d’Italia, facendo diverse fermate lungo la sua rotta. Prima a Palermo, dove carica alcuni passeggeri, e poi a Napoli, dove imbarca il numero maggiore di viaggiatori – circa 800 – tutti provenienti da diverse regioni meridionali: Puglia, Basilicata, Abruzzo, Molise, Campania, Sicilia, Calabria e tutti pronti a cercare fortuna oltre oceano. Da lì, il viaggio sarebbe dovuto proseguire per New York, ma dopo pochi giorni di navigazione, il 17 Marzo 1891 il sogno si trasforma in un incubo e quel viaggio, che doveva rappresentare la possibilità di un futuro migliore, come già altre volte era accaduto, si conclude tragicamente con l’affondamento del piroscafo nella baia di Gibilterra, spezzando i desideri e le speranze di centinaia di persone.

A bordo c’erano uomini, donne e bambini, pronti a lasciare tutto alle spalle e a scommettere su una nuova vita in una terra lontana. Ma il mare, spesso generoso nel portare uomini e merci verso nuove terre, quella notte si fa nemico spietato e tradisce ogni promessa.

17 Marzo: due volte sogno, due volte utopia

Una data, il 17 Marzo, che torna e si fa simbolo.

Come un’eco che ritorna, la storia si ripete e, nella speranza e nel dolore, due volte si fa destino crudele e due volte racconta l’utopia, l’amarezza del sogno infranto: quello collettivo di un’Italia che cerca la sua identità e che, finalmente unita, prova a costruire il suo futuro, e quella personale di chi salpa verso l’ignoto e prova a inseguire quel futuro al di là del mare.

Utopia naufragio

Nel buio fitto di una tempesta, il piroscafo Utopia si scontra con la nave da guerra HMS Anson, ancorata nel porto di Gibilterra dove il capitano prova a cercare riparo. L’impatto è violento, improvviso, irreparabile. L’acqua irrompe nello scafo e si diffonde in pochi attimi, insieme al panico. Per i passeggeri di terza classe – più di 800 anime, la quasi totalità in quel viaggio che porta solo 3 viaggiatori in prima classe –  non c’è tempo per capire e nemmeno per scappare. Ammassati come topi nei bassifondi bui di un luogo non luogo, non riusciranno nemmeno a raggiungere le scale, mentre la nave affonda in pochi minuti trascinando con sé quasi 600 vite, nessuna delle quali avrà mai un nome inciso su una tomba.

Vite che non solo si lasciano dietro corpi senza nome, ma anche le loro storie, i loro desideri, e quella promessa di un futuro migliore che non si è mai realizzata.

In un attimo tutto scompare, persino il sogno, e il viaggio verso l’America si conclude lasciando dietro di sé una lunga scia di dolore e insieme una memoria difficile, scomoda, che per troppo tempo è stata dimenticata.

Il naufragio dell’Utopia, infatti, nonostante il numero elevato di vittime, secondo solo al Titanic, non viene ricordata come quest’ultima. E il motivo è solo uno: le sue vittime erano quasi tutte invisibili. A bordo dell’Utopia non c’erano passeggeri illustri, né uomini di potere, ma gente comune: viaggiatori di terza classe, migranti poveri e anonimi, vite umili, troppo facili da ignorare e da dimenticare.

Storie perdute e ritrovate, tra le onde della dimenticanza.

L’utopia tra le nebbie della memoria, edito da Marotta&Cafiero editori,  è un saggio in cui la Storia si fa racconto intimo e doloroso e diventa il punto di partenza per un altro viaggio. Un viaggio ancora più amaro, ma certamente necessario, che ci riporta a quella memoria troppo spesso avvolta da una nebbia fitta, che si fa feroce e prepotente e cancella nomi, volti, destini, e li trasforma in racconti interrotti e mai finiti.

Ed è proprio questa nebbia che l’autore, Gianni Palumbo, prova a diradare, tentando non solo di raccontare, con delicatezza e precisione, una tragedia dimenticata, ma di scavare e disseppellire i frammenti dispersi di una storia così imponente e di rimetterli insieme, facendosi voce, al contempo, di tutte quelle storie simili a cui ormai siamo abituati: quelle disperse nell’oblio, ignorate dalla Storia ufficiale, che hanno segnato, e continuano a segnare, la vita di migliaia di migranti.

Di ieri e di oggi.

Il significato più profondo di questo libro, dunque, non risiede solo nel racconto di un naufragio. Non è soltanto la cronaca, seppur ne narra con precisione ogni passaggio, di una nave affondata e del riscatto della sua storia dimenticata, ma rappresenta in qualche modo la narrazione dell’utopia stessa: quella che si legge negli occhi di chi parte con le valigie leggere e il cuore pesante, nelle mani tremanti che tengono stretta la fiducia, nei silenzi che dicono addio dalle banchine. Racconta quel momento sospeso tra il desiderio e il destino, tra la terra e il mare, tra la vita che si lascia e quella che non si conosce, in cui tutto sembra ancora possibile, e poi, invece, arriva il buio: il mare che diventa morte, la tragedia che arresta ogni storia e ogni storia che rimane sospesa, in attesa di essere recuperata.

Perché, come i corpi, anche le storie non si perdono: si mescolano al sale, sopravvivono nei nomi, nei ricordi, nei libri come questo.

Un libro che raccoglie il grido sommesso di chi è stato dimenticato e lo tramuta in volontà di far riemergere dalle acque della dimenticanza questa storia e altre storie: le storie mute di chi partiva con poco e sognava tanto, le vite invisibili che non hanno trovato spazio nei manuali di storia, le esistenze fragili che hanno fatto, senza saperlo, la Storia.

È un libro sull’identità, sulla fragilità e sulla forza di chi parte, sulla speranza che resiste anche quando tutto sembra perduto.

È il racconto di una vicenda dimenticata che diventa un gesto d’amore e di giustizia. Perché dimenticare è facile, ma ricordare è un dovere. E ricordare chi non ha avuto voce è, oggi più che mai, un atto rivoluzionario. Raccontare questa storia oggi, significa non solo onorare la memoria di chi ha perso la vita, ma anche dare voce a tutte quelle storie dimenticate, quelle vite che hanno attraversato il dolore e la speranza, e che, nella grande narrazione storica, rischiano di svanire come la scia di una nave sull’oceano.

Gli emigranti di saliti sul piroscafo Utopia non erano numeri, ma sogni e mani che si sono aggrappate alla speranza, con gli occhi pieni di promesse. E l’autore, con grande sensibilità, restituisce loro ciò che la Storia ha sottratto: il nome, la voce, la dimensione umana.

In queste pagine, il lettore è chiamato a un duplice compito: non solo ascoltare e ricordare, ma farsi carico.
Farsi carico delle domande che la Storia non smette mai di porci, ma soprattutto di quelle vite dimenticate, marginali, escluse, che anche nelle loro piccole e brevi esistenze hanno avuto un senso, e sono state piene d’amore e di lotta.
Ogni volta che ricordiamo, scegliamo di restituire dignità ad una memoria dimenticata, ad una memoria che — anche quando è avvolta dalla nebbia — smette di essere un’ombra buia del passato e diventa un atto di resistenza nel presente.

Ogni pagina di questo libro è un gesto d’amore verso la memoria: quella dei singoli e quella dei popoli. E ci ricorda che i sogni, anche quando naufragano, sanno ancora parlare. Basta saperli ascoltare.

Emanuela Gioia


Autore: GianniPalumbo

Anno 2024

Editore: Marotta & Cafiero editore

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