
Questo di Michele Ruol è un libro prezioso. E come tutte le cose preziose necessita di essere trattato, e letto, con cura, con rispetto, con attenzione, con quella cautela che si riserva agli oggetti fragili, agli amuleti, ai ricordi custoditi nei cassetti più intimi della memoria.
È uno di quei libri che si leggono come si accarezza una vecchia fotografia, proprio come si fa con quelle cose che quando te le trovi in mano hai paura che possano rompersi, o che, in qualche modo, possano rompere qualcosa dentro di noi.
Devo dire la verità. Ho iniziato a leggere Inventario di quel che resta dopo che la foresta brucia, edito da TerraRossa Edizioni , almeno quattro volte prima di riuscire a portarlo a termine. E non perché non ne valesse la pena, tutt’altro! Però è un libro che contiene dentro un dolore così acuto, così vero, così ben raccontato, che ti prende la gola, poi il petto, poi il cuore. Un dolore che ti costringe a fermarti, a prendere fiato, a decidere se sei pronto ad accoglierlo davvero. E se non lo sei, rischi di sciupare tutto: di perderti quel senso profondo che rende questo libro non solo importante, ma necessario.
Un libro necessario, sì. Come tutto ciò che ci costringe a guardare in faccia le crepe, le fratture, gli abissi. Come tutto ciò che parla del dolore senza impacchettarlo, senza renderlo necessariamente accettabile. Michele Ruol non cerca scorciatoie, non addolcisce nulla. Ti accompagna dentro una casa, quella dei protagonisti, che è rimasta immobile dal giorno in cui tutto si è fermato, diventando la scenografia muta di un lutto impossibile da superare. E bisogna essere pronti per varcarne la soglia, perché ogni cosa, lì dentro, è ferma da quello che è diventato il giorno zero: quel giorno in cui il tempo si è pietrificato e Madre e Padre si sono cristallizzati in un’esistenza che non scorre più in avanti, ma sobbalza continuamente indietro, in una serie di ricordi messi in fila, ordinati come una sequenza fragile, alternati a un presente che pare svuotato.
E tutto, dentro quella casa, racconta l’assenza. Ogni oggetto è diventato reliquia, ogni soprammobile è una presenza viva. Ogni odore, ogni fotografia, tutto sembra essere una parte di loro che innesca ricordi che non si possono né dimenticare né elaborare. E ogni ricordo, mescolato alla casa, contribuisce a costruire un tempo nuovo: immobile, doloroso, assoluto.
Una casa che si fa spazio immobile e tempo sospeso: come sospese sono le vite di due persone che non hanno più motivi per andare avanti e che “emanano tanfo di dolore”.
Un tempo che si ferma, come le lancette dell’orologio di Maggiore, che si fa metafora perfetta di ricordi e di odori e di emozioni che rimangono intatti nell’anima e impregnano le stanze.
Ogni stanza è un inventario. Ogni descrizione una ferita che resta aperta, e che chiede di essere vista.
Ma in mezzo a questo scenario sospeso, fatto di memoria e devastazione, si intravede anche la vita com’era. La vita prima. Quella di una coppia normale che, tra alti e bassi in mezzo ai gesti quotidiani, ai sogni, ai compromessi, alle fatiche, prova a portare avanti una relazione e una famiglia con due bambini che prima si fanno gioia e dopo vincolo e poi dolore assoluto e poi vuoto e impossibilità di ricominciare.
Un vuoto che avanza nelle loro vite, anche dopo tre o sei o altri anni a venire, e che si trasla sulle pagine bianche con pochi segni di inchiostro: quelli al centro del racconto, e quelli che, a parole, scandiscono lo spazio e ne raccontano il degrado che in ogni stanza diventa il segno di un lento lasciarsi andare, proprio come nelle loro vite.
La scrittura di Michele Ruol è chirurgica e poetica al tempo stesso. È essenziale, ma riesce a dire tutta la verità, nuda e cruda, che arriva dritta e senza filtri.
È una lettura che ti inghiotte, che ti ipnotizza, che ti avvolge con una rete invisibile di emozioni in cui resti impigliato fino all’ultima pagina: che è l’ultimo respiro.
Una trappola sottile che ti ipnotizza e ti tiene agganciato alle pagine con un trasporto che è un mix di speranza, di curiosità, di dolore, di angoscia. Quasi un percorso terapeutico da compiere insieme ai protagonisti attraverso un intreccio di flashback che non solo ti abbracciano, ma ti risucchiano dentro quella memoria che si fa ferita, prima, e nonostante tutto, anche cura.
Un’esperienza che non risparmia nulla, ma che, proprio per questo, diventa una sorta di catarsi. Ti senti spettatore, ma anche complice. E quando chiudi il libro, ti accorgi che qualcosa è cambiato. Perché è un libro che è anche, o soprattutto, una riflessione sul modo in cui viviamo il dolore, su quale e quanto spazio gli concediamo, su cosa resta, davvero, dopo che la foresta brucia e ogni frammento si disperde. Su come, a volte, l’unica cosa che ci rimane è proprio fare quell’inventario: per contare i pezzi, pronunciare ciò che resta, provare a sopravvivere.
Un libro che fa male, ma in una maniera che è solo della letteratura vera: quella che ti scava, ma poi ti lascia uno spazio nuovo, un margine di consapevolezza, forse anche un germe di speranza.
Emanuela Gioia
Inventario di quel che resta dopo che la foresta brucia è nella cinquina del Premio Strega 2025.
Ma per me, lui ha già vinto.
