Il formaggio e i vermi.

Il mugnaio Menocchio e la rivoluzione della microstoria.

Il formaggio e i vermi - Carlo Ginzburg
Claude Truong-Ngoc / Wikimedia Commons

Questa lettura mi aspettava da tempo e volontariamente ho deciso di metterci tutto il tempo necessario per affrontarla con calma.

Carlo Ginzburg non è proprio una lettura facile, ma dalla sua ha una scrittura che ti mette a tuo agio e ti fa accomodare su certi argomenti con un comfort che non ti aspetti. Di sicuro le cose che scrive hanno sempre la capacità di incoraggiare alla riflessione e alla scoperta di nuovi punti di vista.

In passato si potevano accusare gli storici di voler conoscere soltanto le «gesta dei re». Oggi, certo, non è più così.Sempre più essi si volgono verso ciò che i loro predecessori avevano taciuto, scartato o semplicemente ignorato. «Chi costruì Tebe dalle sette porte?» chiedeva già il «lettore operaio» di Brecht. Le fonti non ci dicono niente di quegli anonimi muratori: ma la domanda conserva tutto il suo peso.

E in questo libro, che si occupa di vicende avvenute nella seconda metà del 500, in piena Controriforma, il punto di vista di Ginzburg si sposta sul concetto di microstoria che è racchiuso tutto in questo passaggio – che è l’incipit della prefazione al libro – e soprattutto in questa frase: “Le fonti non ci dicono niente di quegli anonimi muratori: ma la domanda conserva tutto il suo peso.”

Un peso che è lo stesso che viene messo sulla bilancia da tutti quei fenomeni, quelle storie, quei personaggi apparentemente trascurabili, ma che di fatto custodiscono un valore assoluto che va oltre lo spazio e il tempo e aprono nuove prospettive alla conoscenza storica, ancor più quella distante e quindi più difficile da decifrare.

Una Cultura Popolare Autonoma

È in questo contesto che personaggi come Domenico Scandella, detto Menocchio, un mugnaio friulano, vissuto a metà del ‘500 e giustiziato sul rogo per ordine del Santo Uffizio nel 1601, diventano elementi significativi per scavare in quella che viene definita cultura delle classi subalterne o cultura popolare.

La vicenda di Menocchio viene ricostruita da Carlo Ginzburg grazie ai verbali del processo per eresia messo in atto dall’Inquisizione. Documenti che, se a una prima lettura sono semplicemente relativi ad una data vicenda, leggendo bene tra le righe mostrano come, in realtà, posano trasformarsi in fonti necessarie e fondamentali per cogliere, nella documentazione storica, sfumature autentiche attraverso le voci di individui che nell’approccio macroscopico della storiografia tradizionale sembrano non avere rilevanza.

Il libro offre, pertanto, una prospettiva unica sulla mentalità del tempo e sulla complessità delle relazioni sociali.

Nel caso di specie, la storia del Menocchio si fa oltremodo interessante proprio in virtù del suo vissuto e dei documenti ritrovati che raccontano molte cose di lui, ma non solo. Attraverso un’attenta analisi dei verbali del processo, Ginzburg ci mostra come Menocchio, pur essendo un contadino analfabeta, avesse sviluppato un articolato e complesso insieme di idee e credenze.

Una scoperta che, di fatto, svela l’esistenza di una cultura popolare autonoma, talvolta in contrasto con la cultura ufficiale dominante, capace quindi di esprimere visioni del mondo alternative a quelle imposte dalle élite religiose e politiche.

La Circolazione delle Idee

Uno degli aspetti più affascinanti del libro è la dimostrazione di come le idee, anche quelle più sofisticate e eretiche, potessero diffondersi attraverso canali informali, ben oltre i confini delle classi colte, ed essere recepite e reinterpretate dalle classi popolari.

Menocchio, che dalla sua aveva il privilegio di saper leggere e scrivere, cosa allora non usuale nelle classi subalterne, rielaborò concetti tratti da vari testi, inclusi quelli religiosi e scientifici, mescolandoli con credenze locali e con intuizioni sue personali, dimostrando una grande capacità di sincretismo e soprattutto dimostrando quanto la circolazione delle idee nelle classi popolari dell’epoca godeva di una grande vivacità intellettuale.

Lo scarto tra i testi letti da Menocchio e il modo in cui egli li assimilò e li riferì agli inquisitori, indica che le sue posizioni non sono affatto riducibili o riconducibili a questo o quel libro. Da un lato, esse risalgono a una tradizione orale verosimilmente antichissima. Dall’altro, richiamano una serie di motivi elaborati dai gruppi ereticali di formazione umanistica: tolleranza, tendenziale riduzione della religione a moralità e così via. Si tratta di una dicotomia solo apparente, che rinvia in realtà a una cultura unitaria entro cui non è possibile operare tagli netti. Anche se Menocchio entrò in contatto, in maniera più o meno mediata, con ambienti dotti, le sue affermazioni in difesa della tolleranza religiosa, il suo desiderio di un rinnovamento radicale della società hanno un timbro originale, e non appaiono il risultato di influssi esterni subiti passivamente. Le radici di quelle affermazioni e di quei desideri affondavano lontano, in uno strato oscuro, quasi indecifrabile di remote tradizioni contadine.

Una storia di resistenza culturale

La storia di Menocchio è, senza dubbio, una storia di resistenza. Nonostante le persecuzioni dell’Inquisizione, il mugnaio continuò a difendere le sue idee, dimostrando come le classi subalterne potessero opporsi alle imposizioni culturali delle élite, ma soprattutto sfruttò il processo per esprimere davanti ai pubblici ufficiali ciò che da tempo andava ripetendo in forma privata ai suoi interlocutori, mettendo in evidenza una delle cose che più lo facevano infervorare, e cioè la sopraffazione dei ricchi nei confronti delle classi più povere.

Un tema molto attuale che continua ad avere una sorta di primato ancora oggi, nonostante lo spazio temporale che ci separa da questa storia. Una sopraffazione che, tra le altre cose, vede la gestione della giustizia vessata dalla forza e dalla prepotenza di chi detiene soldi e potere e che, al tempo di Menocchio, veniva condotta con metodi che potremmo definire oscurantisti, come l’utilizzo del latino nei tribunali, una lingua incomprensibile per la gente comune.

Il suo desiderio di «cercar le cose alte» fu per Menocchio il vero motore della sua resistenza: un desiderio che sentiva come legittimo e per il quale aveva deciso di combattere perché riteneva assurdo che la cultura fosse un privilegio riservato ai pochi che, di fatto, volevano monopolizzare la conoscenza.

Inoltre, Menocchio non si limitò a denunciare le classi alte e il loro mondo corrotto, ma ebbe l’ardire di inoltrarsi in argomenti proibiti, osando sfidare le autorità religiose ed ecclesiastiche del suo tempo, promuovendo idee eretiche sulla natura dell’universo e dell’uomo e arrivando a concepire una sua idea relativa alla creazione del mondo piuttosto bizzarra: «Io ho detto – afferma – che… tutto era un caos, cioè terra, aere, aqua et fuogo insieme; et quel volume, andando così fece una massa, aponto come si fa il formazo nel latte, et in quel deventorno vermi, et quelli furno li angeli…».

Il Valore della Microstoria

Ciò che rende così rilevante questo libro oggi è senza dubbio il suo approccio innovativo alla narrazione storica.

Il lavoro di Carlo Ginzburg sul mugnaio Menocchio non è solo una indagine su un caso di eresia, ma è soprattutto un viaggio intrigante e affascinante che si insinua nelle idee e nelle credenze di un’epoca che, come spesso accade, conosciamo solo attraverso la narrazione storica tradizionale che non può che essere solo una parte di una verità più ampia e spesso nascosta.

“Il formaggio e i vermi” è, di fatto, una celebrazione della microstoria come metodo storiografico che, concentrandosi su un singolo individuo e su un contesto locale, riesce a far emergere dinamiche più ampie, offrendoci una visione più particolareggiata di tutte quelle sfumature della società del XVI secolo che nelle narrazioni ufficiali non vengono considerate.

Un metodo che non solo arricchisce la nostra comprensione del passato, ma ci invita a guardare alla storia con occhi nuovi, provando a guardare oltre i grandi eventi e i protagonisti noti della storia e a mettere in atto nuove riflessioni, partendo dalle tante storie nascoste nelle pieghe della storia ufficiale, fatte di storie individuali e di voci marginalizzate.

Un metodo che offre spunti per guardare in maniera diversa anche alle dinamiche che fanno parte della nostra epoca, per esplorare in maniera rinnovata il passato e riconoscere le connessioni profonde tra la storia e l’attualità.

In un’epoca in cui la verità storica è spesso messa in discussione e strumentalizzata per fini politici, il lavoro di Ginzburg ci invita a essere critici e riflessivi nel nostro approccio al passato e ci ricorda l’importanza di dare spazio alle narrazioni personali e di abbracciare la diversità delle esperienze umane: perché la storia non è un racconto lineare e univoco, ma piuttosto un intrico di voci, prospettive e interpretazioni in cui ogni evento non può che essere il risultato di una complessa interazione di fattori sociali e culturali.

Emanuela Gioia

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