Un viaggio interiore tra memoria e conoscenza di sé
«Pensai a quanti luoghi ci sono nel mondo che appartengono così a qualcuno, che qualcuno ha nel sangue e nessun altro li sa».
Sono molto legata a questa frase di Cesare Pavese, tratta dal libro Il diavolo sulle colline.
È un’immagine eloquente, una dichiarazione di appartenenza e amore che descrive in maniera precisa e significativa quell’idea di radicamento, intimamente intrecciata con la memoria e con l’identità, che assume molteplici significati.
Ognuno di noi ha un luogo a cui appartiene più di altri, ma soprattutto tutti noi abbiamo un luogo che ci appartiene con una modalità che è solo nostra e che si lega a doppio filo con il nostro vissuto, con le nostre emozioni, con la memoria che in quel luogo si è fatta viva, esistente, concreta, e ha trovato la sua dimensione.
Una memoria che torna, ogni volta, per ricordarci l’importanza di un tempo e di uno spazio che sono stati nutrimento e forgia per la nostra essenza, prima, e alcova in cui riparare, nei momenti in cui la piena di emozioni tracima gli argini e travolge i pensieri, poi.
Sono spesso i luoghi della nostra infanzia, di quel momento della vita che ci ha visto felici e spensierati, qualunque fosse il mondo che avevamo intorno: che fosse un mondo di abbondanza o di cose semplici, rimane quello che ha plasmato il nostro sguardo e quello intorno al quale abbiamo costruito l’antologia dei nostri valori e della nostra visione della vita.
Monte Cocuzzo: il monte analogo, luogo dell’anima e della memoria
Per Mauro Francesco Minervino quel luogo è monte Cocuzzo, la montagna a cui da sempre, fin da bambino, sa di poter far riferimento e affidamento, anche solo con lo sguardo. La montagna che diventa luogo e simbolo atavico, tragitto da battere e da sognare.
È il suo monte analogo, il luogo che ospita il viaggio verso la conoscenza e la consapevolezza di sé.
Nel ripercorrerlo, il suo luogo dell’anima, Mauro Francesco Minervino si sente un po’ come Cézanne che del Monte Sainte-Victoire aveva fatto il suo punto di riferimento e che, ricalcandone la sagoma e il perimetro a suon di pennellate e colori, impara a camminarne i sentieri, le stagioni, le suggestioni, ma soprattutto il ricordo e la memoria che in quei luoghi hanno preso forma, per dare un senso non solo alla sua arte, ma anche alla sua esistenza.
Al posto di pennelli e colori, però, lui si serve di parole ed emozioni, che rimbombano di un’eco lontana che si fa mito, storia, tradizione e, insieme, memoria e ricordo.
Un’eco che torna, ogni volta, rievocando mondi antichi fin dal nome e dall’origine del suo significato – il nome deriva dal latino Cacutium e dal greco κακòς κúτος e vuol dire pietra cattiva, ma anche montagna selvaggia, se si fa riferimento alla radice sanscrita Cauchos -, e si fa punto di partenza di un’esperienza letteraria che apre alla riflessione su temi come la memoria, la conoscenza di sé, la nostalgia.
Monte Cocuzzo diventa, così, il luogo in cui la memoria si fa spazio, districandosi tra paesaggi mozzafiato e strade e sentieri che ripercorrono stratificazioni di ricordi e di storie passate, che tornano alla mente e, irrimediabilmente, si intrecciano con il presente.
Ogni tappa di quel cammino diventa un luogo simbolico in cui inzuppare i ricordi e da cui attingere storie, fatti, immagini, emozioni che hanno lasciato il segno e che tornano per trasformarsi, poi, in testimonianza e narrazione: i villaggi abbandonati che riportano a miti e leggende; le vicende di Giufà, custode di storie e segreti, misteri e tradizioni di quel mondo degli ultimi ormai svanito; il profumo del pane che si fa memoria e presente in una mescolanza di emozioni e sensazioni.
È come se la montagna stessa fosse un archivio vivente, custode di storie e segreti, e di porte che aprono ai sentieri che conducono alla vetta e accompagnano le tappe di un cammino nostalgico che si fa, al contempo, meraviglia e consapevolezza.
La nostalgia e il nóstos per riscoprire sé stessi.
Tornare per ritrovarsi.
È il nóstos di omerica memoria che è un ritorno a casa, ma anche un ritorno a sé stessi nell’intricato percorso della vita e della ricerca del senso dell’esistenza.
Un viaggio che inizia con la nostalgia, che è bisogno di tornare in certi luoghi, di rivivere i tempi passati e soprattutto di rintracciare quella parte di sé, che in quei luoghi e in quel tempo passato è rimasta impigliata o si è persa, e che attraverso la discesa nel ventre materno della terra e delle radici diventa occasione di scoperta, riflessione e ricerca interiore.
Con il viaggio al suo monte analogo Mauro Francesco Minervino trasforma la nostalgia in un sentimento che da malinconia diventa ispirazione e forza, ma che a volte, però, si trasforma anche in dolore, in quel senso di perdita e di rimpianto per un passato che non può essere recuperato, ma che continua a vivere attraverso il ricordo e il racconto di quel che è stato.
Un sentimento che si fa strumento per esplorare le contraddizioni della modernità e per criticare i cambiamenti sociali e culturali che hanno impoverito il tessuto umano e culturale, un modo per scrutare e rivelare e mantenere viva la memoria e resistere all’omologazione e all’impoverimento del mondo contemporaneo.
Un sentimento, che è ricordo felice e doloroso insieme, che se da una parte ci aiuta a rivivere certi momenti e ci rimette in pace con il mondo, dall’altra ci costringe a tornare nel presente non senza dolore e rimpianto di quel tempo che non c’è più.
La nostalgia diventa così la spinta verso quella vetta simbolica, archetipo di quella scalata interiore che conduce alla consapevolezza: quel punto dove forse non si arriva mai, ma che vale sempre il viaggio. Un viaggio che è un ritorno doloroso alla memoria, di cui restano solo i ricordi e le illusioni.
E la montagna, che è legame tra terra e cielo, si fa collante tra i ricordi e il futuro che verrà.
Emanuela Gioia