La leggerezza di Calvino e la propaganda di una citazione che non esiste.

“Prendete la vita con leggerezza, che leggerezza non è superficialità, ma planare sulle cose dall’alto, non avere macigni sul cuore”

Italo Calvino

Sono anni, ormai, che leggiamo ovunque questa frase, erroneamente attribuita a Italo Calvino.

È presente in ogni dove e si è diffusa proprio grazie all’attribuzione che ha come fonte Le lezione americane”, in particolare gli appunti sulla Leggerezza, che compongono, insieme alle altre annotazioni , Rapidità, Esattezza, Visibilità e Molteplicità, la raccolta di conferenze che Calvino avrebbe dovuto tenere ad Harvard.

Su questa frase, però, è necessario fare una precisazione: chi ha letto integralmente le annotazioni su  La leggerezza , si sarà certamente accorto che la frase in questione non compare durante la lettura.

Più volte mi sono chiesta il motivo di questa diffusione cosi estesa e capillare, ma non sono mai riuscita a trovare traccia di una spiegazione né di qualcuno che si fosse interrogato sulla faccenda.

L’unica traccia è un tweet della figlia di Italo Calvino, Giovanna, che gelò la Feltrinelli commentando un post in cui era citata la frase: “Grazie di ricordare mio padre. La frase che citate, mi potreste indicare da quale testo proviene? Perché non ne conosco la fonte e potrebbe darsi che fosse apocrifa” La Feltrinelli fece retromarcia scusandosi e il caso si chiuse senza una soluzione:  “Ci scusiamo e sarà nostra premura eliminare il contenuto scorretto. Grazie”

La storia delle LEZIONI AMERICANE

ll 6 giugno 1984 Calvino fu invitato dall’Università di Harvard – come riporta nella Nota introduttiva alla prima edizione uscita per la casa editrice Garzanti la moglie, Esther Calvino,-  a tenere le Charles Eliot Norton Poetry Lectures,  un ciclo di sei conferenze magistrali, precedentemente affidate ad intellettuali dal calibro di T. S. Eliot, Igor Stravinsky, Erwin Panofsky, Jorge Luis Borges, ed altri.

Dovevano essere sei conferenze a tema libero da tenersi  nel corso di un anno accademico, che nel suo caso sarebbe stato l’anno accademico 1985/86.

Fu un lavoro a cui Calvino si dedicò con grande passione: una passione che lo portò a dedicare il tema delle sei conferenza all’importanza dei valori letterari da conservare per il nuovo millennio, che sarebbe arrivato di lì a poco. La sua consapevolezza e la sua lungimiranza, forse, nel vedere lungo sulla possibilità di assistere ad un lento sfaldarsi di certi valori e alla repentina perdita, poi, della memoria di questi stessi valori, offuscati dall’incalzante presenza di quel fantasma della materialità  che già da molto tempo aleggiava, lo fece buttare a capofitto sulla scrittura di quelle annotazioni che di lì a poco avrebbe raccontato ad una platea di universitari, tanto da farla diventare quasi un’ossessione e da raccogliere materiale per almeno otto conferenze, a fronte delle sei che gli erano state richieste.

Sul cominciare e sul finire sarebbe stato il titolo dell’ottava, di cui però non è mai stato trovato il testo. Così come della sesta, di cui si sa chesi sarebbe intitolata Consistency, coerenza, e che forse sarebbe servita come apertura o come chiusura, in qualità di condizione necessaria a qualsiasi forma di relazione:  tra uomo e uomo e tra uomo e mondo. Avrebbe avuto dei riferimenti a Bartleby, un racconto di Herman Melville, e la scrittura era stata programmata una volta arrivato ad Harvard.

Ma ad Harvard, Calvino, non riuscirà ad andare e quelle lezioni non le tenne mai.

Morì, infatti, nella notte fra il 18 e il 19 Settembre 1985, e il testo fu pubblicato  postumo con il titolo Lezioni americane – Sei  proposte per il prossimo millennio:

Calvino ha lasciato questo libro senza titolo italiano. Aveva dovuto pensare prima al titolo inglese, “Six memos for the next millennium” ed era il titolo definitivo. Impossibile sapere cosa sarebbe diventato in italiano. Se mi sono decisa finalmente per Lezioni americane è perché in quell’ultima estate di Calvino, Pietro Citati veniva a trovarlo spesso al mattino e la prima domanda che faceva era: Come vanno le lezioni americane? e di lezioni americane si parlava. So che questo non basta, e che Calvino preferiva dare una certa uniformità ai titoli dei suoi libri in tutte le lingue. Palomar era stato scelto precisamente per questa ragione. Penso anche che “for the next millennium” avrebbe fatto parte del titolo italiano: in tutti i suoi tentativi di trovare il titolo giusto in inglese cambiano le altre parole, ma “for the next millennium” c’è sempre. Ed è per quello che l’ho conservato.”

Esther Calvino, Nota introduttiva alla prima edizione Garzanti

Esegesi delle LEZIONI AMERICANE

Leggerezza, Rapidità, Esattezza, Visibilità, Molteplicità (e Coerenza), sono le parole chiave su cui svilupperanno le cinque lezioni, ognuna delle quali collegata ai valori letterari da conservare per il nuovo millennio, che sarebbe arrivato di lì a soli 15 anni. Il millennio che stava per chiudersi e quello che stava per arrivare erano, in quegli anni, spunto per molte riflessioni: cosa sarebbe stato di quello che fin lì era assodato, cosa sarebbe rimasto uguale e cosa si sarebbe trasformato, e soprattutto, quale sarebbe stata la sorte della letteratura e del libro?

Il clima culturale stava cambiando e in seguito a certi cambiamenti stavano avvenendo delle grosse trasformazioni sulle quali Calvino attuò attente riflessioni, vista anche la sua dote di grande e profondo osservatore alla stregua delle più attente considerazione sul postmoderno: l’osservazione della trasformazione del mondo, la complessità di certe trasformazioni che stavano creando instabilità e incertezze sempre più allargate e che stavano creando incrinature anche all’interno delle strutture portanti delle nostre società, avevano dato adito alla necessità  di interrogarsi su certi fenomeni cosi complessi per provare ad osservarli dal di fuori e poterci entrare dentro e capirli e raccontarli.

Calvino era fiducioso, ma solo perché sapeva che la letteratura avrebbe mantenuto il suo ruolo importante grazie a tutto ciò che era in grado di  dare; il seme del dubbio, però, che qualcosa potesse distogliere lo sguardo proprio da quel ruolo importante,  doveva ad ogni modo essere penetrato anche nel suo humus di certezze: certezze dovute alla costante presenza della letteratura nella sua vita, che forse iniziavano a vacillare tanto da volersi soffermare, quasi a sugello di tutta la sua vita di scrittore, narratore, e grande uomo di cultura, proprio su una sorta di testamento intellettuale  e culturale.

Senza alcun dubbio Le lezioni americane costituiscono l’apice della sua riflessione intellettuale, in cui afferma che, sì, la letteratura avrebbe trovato il suo spazio di importanza anche nel nuovo millennio, nonostante le nefaste previsioni di un mondo che sarebbe diventato un coacervo di tecnologie avanzate, ma solo a condizione che alcuni tra gli insegnamenti più importanti sarebbero rimasti impressi nella memoria e custoditi come valori fondamentali da non dimenticare mai.

L’IMPORTANZA DI UNA CORRETTA INTERPRETAZIONE.

Sulla leggerezza, in tal senso, è importante sottolineare alcuni punti fondamentali, per non incorrere in errori dovuti ad interpretazioni selvagge o alla non conoscenza dell’opera e del pensiero che corre sul filo di una importante tensione argomentativa attraverso cui si dipana il senso del dualismo leggerezza-peso.

Dedicherò la prima conferenza all’opposizione leggerezza-peso, e sosterrò le ragioni della leggerezza. Questo non vuol dire che io consideri le ragioni del peso meno valide, ma solo che sulla leggerezza penso d’aver più cose da dire. Dopo quarant’anni che scrivo fiction, dopo aver esplorato varie strade e compiuto esperimenti diversi, è venuta l’ora che io cerchi una definizione complessiva per il mio lavoro; proporrei questa: la mia operazione è stata il più delle volte una sottrazione di peso; ho cercato di togliere peso ora alle figure umane, ora ai corpi celesti, ora alle città; soprattutto ho cercato di togliere peso alla struttura del racconto e al linguaggio. In questa conferenza cercherò di spiegare – a me stesso e a voi – perché sono stato portato a considerare la leggerezza un valore anziché un difetto; quali sono gli esempi tra le opere del passato in cui riconosco il mio ideale di leggerezza; come situo questo valore nel presente e come lo proietto nel futuro.

Esordisce, Calvino, mettendo in primo piano la sua intenzione di spiegare il percorso attraverso il quale, dopo anni di sperimentazione nel suo lavoro, in cui lo scopo principale è stato proprio quello di togliere peso soprattutto alla struttura del racconto e al linguaggio di narrazione, lo ha «portato a considerare la leggerezza un valore anziché un difetto». E lo fa attingendo a diversi modelli letterari, molti dei quali presi dai classici, per dimostrare l’essenza della leggerezza: per primo il mito ovidiano di Perseo e di Medusa, che rappresenta per lui «un’allegoria del rapporto del poeta col mondo, una lezione del metodo da seguire scrivendo»:

Quando ho iniziato la mia attività, il dovere di rappresentare il nostro tempo era l’imperativo categorico d’ogni giovane scrittore. Pieno di buona volontà, cercavo d’immedesimarmi nell’energia spietata che muove la storia del nostro secolo, nelle sue vicende collettive e individuali. Cercavo di cogliere una sintonia tra il movimentato spettacolo del mondo, ora drammatico ora grottesco, e il ritmo interiore picaresco e avventuroso che mi spingeva a scrivere. Presto mi sono accorto che tra i fatti della vita che avrebbero dovuto essere la mia materia prima e l’agilità scattante e tagliente che volevo animasse la mia scrittura c’era un divario che mi costava sempre più sforzo superare. Forse stavo scoprendo solo allora la pesantezza, l’inerzia, l’opacità del mondo: qualità che s’attaccano subito alla scrittura, se non si trova il modo di sfuggirle. In certi momenti mi sembrava che il mondo stesse diventando tutto di pietra: una lenta pietrificazione più o meno avanzata a seconda delle persone e dei luoghi, ma che non risparmiava nessun aspetto della vita. Era come se nessuno potesse sfuggire allo sguardo inesorabile della Medusa. L’unico eroe capace di tagliare la testa della Medusa è Perseo, che vola coi sandali alati, Perseo che non rivolge il suo sguardo sul volto della Gorgone ma solo sulla sua immagine riflessa nello scudo di bronzo. Ecco che Perseo mi viene in soccorso anche in questo momento, mentre mi sentivo già catturare dalla morsa di pietra, come mi succede ogni volta che tento una rievocazione storico-autobiografica. Meglio lasciare che il mio discorso si componga con le immagini della mitologia. Per tagliare la testa di Medusa senza lasciarsi pietrificare, Perseo si sostiene su ciò che vi è di più leggero, i venti e le nuvole; e spinge il suo sguardo su ciò che può rivelarglisi solo in una visione indiretta, in un’immagine catturata da uno specchio. Subito sento la tentazione di trovare in questo mito un’allegoria del rapporto del poeta col mondo, una lezione del metodo da seguire scrivendo. Ma so che ogni interpretazione impoverisce il mito e lo soffoca: coi miti non bisogna aver fretta; è meglio lasciarli depositare nella memoria, fermarsi a meditare su ogni dettaglio, ragionarci sopra senza uscire dal loro linguaggio di immagini. La lezione che possiamo trarre da un mito sta nella letteralità del racconto, non in ciò che vi aggiungiamo noi dal di fuori.

Passa poi da Montale, da Milan Kundera, da Lucrezio, con il suo Rerum Natura che lui definisce «la prima grande opera di poesia in cui la conoscenza del mondo diventa dissoluzione della compattezza del mondo, percezione di ciò che è infinitamente minuto e mobile e leggero:

È il poeta della concretezza fisica, vista nella sua sostanza permanente e immutabile, ma per prima cosa ci dice che il vuoto è altrettanto concreto che i corpi solidi. La più grande preoccupazione di Lucrezio sembra quella di evitare che il peso della materia ci schiacci. Al momento di stabilire le rigorose leggi meccaniche che determinano ogni evento, egli sente il bisogno di permettere agli atomi delle deviazioni imprevedibili dalla linea retta, tali da garantire la libertà tanto alla materia quanto agli esseri umani. La poesia dell’invisibile, la poesia delle infinite potenzialità imprevedibili, così come la poesia del nulla nascono da un poeta che non ha dubbi sulla fisicità del mondo. Questa polverizzazione della realtà s’estende anche agli aspetti visibili, ed è là che eccelle la qualità poetica di Lucrezio: i granelli di polvere che turbinano in un raggio di sole in una stanza buia (II, 114-124); le minute conchiglie tutte simili e tutte diverse che l’onda mollemente spinge sulla bibula harena, sulla sabbia che s’imbeve (II, 374-376); le ragnatele che ci avvolgono senza che noi ce ne accorgiamo mentre camminiamo (III, 381-390).

E poi, ancora, Dante, Boccaccio, Guido Cavalcanti

Possiamo dire che due vocazioni opposte si contendono il campo della letteratura attraverso i secoli: l’una tende a fare del linguaggio un elemento senza peso, che aleggia sopra le cose come una nube, o meglio un pulviscolo sottile, o meglio ancora come un campo d’impulsi magnetici; l’altra tende a comunicare al linguaggio il peso, lo spessore, la concretezza delle cose, dei corpi, delle sensazioni. Alle origini della letteratura italiana – e europea – queste due vie sono aperte da Cavalcanti e da Dante. L’opposizione vale naturalmente nelle sue linee generali, ma richiederebbe innumerevoli specificazioni, data l’enorme ricchezza di risorse di Dante e la sua straordinaria versatilità. Non è un caso che il sonetto di Dante ispirato alla più felice leggerezza (“Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io”) sia dedicato a Cavalcanti. Nella Vita nuova, Dante tratta la stessa materia del suo maestro e amico, e vi sono parole, motivi e concetti che si trovano in entrambi i poeti; quando Dante vuole esprimere leggerezza, anche nella Divina Commedia, nessuno sa farlo meglio di lui; ma la sua genialità si manifesta nel senso opposto, nell’estrarre dalla lingua tutte le possibilità sonore ed emozionali e d’evocazione di sensazioni, nel catturare nel verso il mondo in tutta la varietà dei suoi livelli e delle sue forme e dei suoi attributi, nel trasmettere il senso che il mondo è organizzato in un sistema, in un ordine, in una gerarchia dove tutto trova il suo posto. Forzando un po’ la contrapposizione potrei dire che Dante dà solidità corporea anche alla più astratta speculazione intellettuale, mentre Cavalcanti dissolve la concretezza dell’esperienza tangibile in versi dal ritmo scandito, sillabato, come se il pensiero si staccasse dall’oscurità in rapide scariche elettriche. L’essermi soffermato su Cavalcanti m’è servito a chiarire meglio (almeno a me stesso) cosa intendo per “leggerezza”. La leggerezza per me si associa con la precisione e la determinazione, non con la vaghezza e l’abbandono al caso. Paul Valéry ha detto: “Il faut etre léger comme l’oiseau, et non comme la plume”.

Ed eccolo qui il fulcro della questione: Calvino cita Paul Valéry e la necessità di essere leggeri «come l’uccello che vola, e non come la piuma».

È da questa frase che mi piace pensare possa essere scaturita la falsa citazione. Si può essere intelligenti con leggerezza e leggeri con intelligenza: il concetto c’è e assomiglia molto a quello che la citazione vuole mettere in evidenza.

IL POTERE DEL’INFORMAZIONE

La vera domanda, in tutta questa faccenda, a mio avviso, è: perché la non citazione di Calvino continua a rimbalzare di bocca in bocca, di penna in penna, senza che nessuno si accorga che, in realtà, quella frase potrebbe essere considerata un sunto, ma di fatto non sono parole di Calvino, almeno non in forma di citazione?

Il concetto espresso è sicuramente molto vicino a quello che Calvino prova ad argomentare nella prima delle cinque lezioni, ma la frase così come viene riportata nel virgolettato, ormai onnipresente in rete e in ogni dove, non esiste.

Le risposte ad una domanda del genere potrebbero essere molte, ognuna con una verità parziale, ma di sicuro la riflessione principale rimanda ad una questione ben più ampia, che è quella della mancanza di curiosità o di approfondimento o di attenzione a ciò che viene riportato in rete come fosse verità assoluta.

Una riflessione che lascia spazio a molti ragionamenti, in grado di dimostrare, invece, il concetto diverso di superficialità: quella che non ci costringe ad andare a fondo alle cose, verificarle, accertarcene nella forma e nei contenuti, prima di riportarle e di renderle una falsa verità.

Emanuela Gioia

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