Resto qui – di Marco Balzano

Resto qui

«Se per te questo posto ha un significato, se le strade e le montagne ti appartengono, non devi aver paura di restare»

C’è sempre un legame profondo, che va al di là del normale sentire, dietro la scelta di un libro da leggere in un dato momento.

Almeno per me.

E difficilmente il mio intuito sbaglia quando le emozioni, che sono poi quelle che per prime ti suggeriscono di “aggrapparti” ad un libro e non ad altri, iniziano a vibrare e ad agitarsi fino a diventare la spinta per aprire e assaporare quelle parole che riempiono di passione la pagina bianca.

Resto qui di Marco Balzano, edito da Einaudi nella collana Supercoralli, non passa inosservato. Quella immagine impressa sulla copertina ha qualcosa di surreale, di onirico, che quasi toglie il fiato: un campanile spunta fuori dalle acque di un lago e si erge, solitario, a memoria di un luogo: un luogo che un tempo era lì, con la sua gente, i suoi masi, lo scorrere sereno dei giorni, e che ora non c’è più, per volere dell’uomo e non del caso: ma solo fisicamente.

“Nella primavera del ’23 mi preparavo per l’esame di maturità.(…) Fino a quel momento, specie in queste valli di confine, la vita era scandita dai ritmi delle stagioni. Sembrava che quassù la storia non arrivasse. Era un’eco che si perdeva. La lingua era il tedesco, la religione quella cristiana, il lavoro quello nei campi e nelle stalle. Non c’era da aggiungere altro per capire questa gente di montagna di cui fai parte anche tu, se non altro perché ci sei nata.”

Curon era un piccolo borgo della Val Venosta, nel Südtirol. Oggi quel borgo è completamente sommerso dal lago di Resia,  un lago artificiale nato negli anni ’50 e  destinato alla produzione di energia idroelettrica. Il campanile, parte di una antica chiesa del 300, è tutto ciò che rimane, in superficie, di quella piccola frazione di anime, per far si che la memoria di quei luoghi possa rimanere segnata senza perdere traccia di ciò che fu un tempo.

La voce narrante è quella di Trina, una giovane donna nata e cresciuta nel  piccolo borgo dove la vicenda si svolge e che ha inizio con l’avvento del fascismo e di Mussolini che di quei luoghi, a quel tempo, avevano fatto razzie “(…) ha fatto ribattezzare strade, ruscelli, montagne… sono andati a molestare anche i morti, quegli assassini, cambiando le scritte sulle lapidi. Hanno italianizzato i nostri nomi, sostituito le insegne dei negozi. Ci hanno proibito di indossare i nostri vestiti.”

Trina è una giovane maestra a cui non solo viene impedito di insegnare, per via del divieto imposto da Mussolini di parlare e insegnare la lingua tedesca,  ma le viene tolta, soprattutto, la possibilità di vivere una vita serena e lineare, fatta di cose semplici e di semplici aspettative. Attraverso le vicende della sua vita, Trina racconterà la storia della “resistenza” della gente di Curon, caparbia e amabilmente legata a quei luoghi, di cui, insieme al marito Erich, si farà portavoce tentando una battaglia persa in partenza, chiedendo l’aiuto di chiunque, persino del Papa e delle più alte cariche dello Stato, pur di farsi ascoltare e salvare quella comunità che si sfalderà, nonostante tutti gli sforzi, sotto gli occhi impotenti di tutti.

Sebbene la vicenda si svolga nell’arco di 30 anni circa, nella narrazione di Trina, che racconta l’evolversi della vicenda attraverso il filtro del suo personale dolore tenendo un diario in cui parla alla figlia Marica- andata via da Curon senza dire nulla e mai più tornata -, sembra ci sia un dilatarsi dello spazio e del tempo in una dimensione che va oltre la vicenda stessa e che rimane ancorato, allo stesso tempo, ad un attimo: quello dell’amore per un luogo, per una terra e le sua case, le sue tradizioni, la sua gente: ad un bisogno di restanza, come direbbe Vito Teti. Perché il senso della restanza, termine coniato  per delineare la resistenza all’abbandono forzato di certi paese del Sud Italia, può verosimilmente essere traslato in un contesto tanto diverso ma che riecheggia, nell’essenza dei fatti, circostanze che si muovono su quello stesso filo dell’amore di chi decide di rimanere per provare a conservare, e preservare, il senso di certi luoghi – che sono i nostri luoghi – e contrastare l’esigenza dell’abbandono che il più delle volte ha origine in qualcosa di più alto e di più incontrollabile, che va oltre le nostre possibilità di decisione.

La diga era stata annunciata per la prima volta nel 1911. Imprenditori della Montecatini volevano espropriare Resia e Curon e sfruttare la corrente del fiume per produrre energia. Industriali e politici italiani dicevano che l’Alto Adige era una miniera d’oro bianco e sempre piú spesso mandavano ingegneri a ispezionare le valli e a sondare i corsi dei fiumi. I nostri paesi sarebbero scomparsi sotto una tomba d’acqua. I masi, la chiesa, le botteghe, i campi dove pascolavano le bestie: tutto sommerso. Con la diga avremmo perduto le case, gli animali, il lavoro. Di noi, con la diga, non sarebbe rimasto piú nulla. Saremmo dovuti emigrare, diventare altro. Un altro guadagnarsi il pane, un altro posto, un altro popolo. Saremmo morti lontano dalla Val Venosta e dal Tirolo. Nel 1911 il progetto non partì perché il terreno era stato considerato a rischio. Non aveva consistenza, era fatto soltanto di detriti di dolomia. Ma dopo che il fascismo salì al potere tutti sapevamo che presto il duce avrebbe fatto costruire poli industriali a Bolzano e Merano – quelle città sarebbero diventate il doppio o il triplo, sarebbero arrivati italiani a frotte a caccia di lavoro – e la richiesta di energia sarebbe enormemente aumentata.”

Tutto vero: Curon, Mussolini, La Montecatini, la prepotenza del potere, la diga che annienta e distrugge l’anima di un luogo e delle persone che lo abitano, l’acqua che ha offuscato ogni cosa e quel campanile  che ha le sembianze di una assurda visione surreale come assurda e surreale è la vicenda che ha il compito di ricordare. Resto qui è una storia dentro la storia che racconta l’urlo sordo di chi chiede giustizia. L’urlo disperato di chi non si rassegna e combatte, fino alla fine, la lotta più dura e innaturale, la più pesante e carica di una rabbia che corrode e consuma l’anima: la lotta contro l’ingiustizia del potere, contro cui l’uomo onesto nulla può.

Un urlo che, però, rimarrà inascoltato e vano.

Tutto quello che Trina e Erich, e la gente di Curon, provano instancabilmente a difendere, verrà annientato con un colpo di spugna e sotto gli occhi indifesi di chi sarà costretto ad andare, nonostante il bisogno di restare: restare per avere cura della memoria e, soprattutto, per difendere la propria identità.

È quello che faranno Erich e Trina che, stravolti dalla stanchezza e insaziabili di amore per i propri luoghi, decideranno di rimanere preferendo soffocare la loro dignità, strozzata dalla assurda e insensata logica del potere, pur di non vederla completamente distrutta e per provare, con uno sguardo sempre rivolto al campanile, a riconquistarla.

“D’estate scendo a fare due passi e costeggio il lago artificiale. La diga produce pochissima energia. Costa molto meno comprarla dalle centrali nucleari francesi. Nel giro di pochi anni il campanile che svetta sull’acqua morta è diventato un’attrazione turistica. I villeggianti ci passano all’inizio stupiti e dopo poco distratti. Si scattano le foto con il campanile della chiesa alle spalle e fanno tutti lo stesso sorriso deficiente. Come se sotto l’acqua non ci fossero le radici dei vecchi larici, le fondamenta delle nostre case, la piazza dove ci radunavamo. Come se la storia non fosse esistita.
 Ogni cosa ha ripreso una strana apparenza di normalità. Sui davanzali e sui balconi sono tornati i gerani, alle finestre abbiamo appeso tendine di cotone. Le case che oggi abitiamo somigliano a quelle di qualsiasi altro borgo alpino. Per le strade, quando finiscono le vacanze, si sente un silenzio impalpabile, che forse non nasconde piú niente. Anche le ferite che non guariscono prima o poi smettono di sanguinare. La rabbia, persino quella della violenza inflitta, è destinata come tutto a slentarsi, ad arrendersi a qualcosa di piú grande di cui non conosco il nome. Bisognerebbe saper interrogare le montagne per sapere quello che è stato.
La vicenda della distruzione del paese è riassunta sotto una pensilina di legno, nel parcheggio degli autobus delle agenzie viaggi. Ci sono le fotografie della vecchia Curon, dei masi, dei contadini con le bestie, di padre Alfred che guida l’ultima processione. In una si vede anche Erich con i compagni del comitato. Sono vecchie foto in bianco e nero infilate sotto il vetro di una bacheca, con qualche didascalia in tedesco tradotta in un italiano approssimativo. C’è anche un piccolo museo che apre di tanto in tanto per i pochi turisti curiosi. Di quello che eravamo non rimane altro.
Guardo le canoe che fendono l’acqua, le barche che sfiorano il campanile, i bagnanti che si stendono a prendere il sole. Li osservo e mi sforzo di comprendere. Nessuno può capire cosa c’è sotto le cose. Non c’è tempo per fermarsi a dolersi di quello che è stato quando non c’eravamo. Andare avanti, come diceva Ma’, è l’unica direzione concessa. Altrimenti Dio ci avrebbe messo gli occhi di lato. Come i pesci.”

Emanuela Gioia

Titolo : Resto qui

Autore: Marco Balzano

Casa editrice: Einaudi

Anno di pubblicazione: 2018

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