Maurizio Maggiani e l’utopia di una Nazione.

DALLA QUARTA DI COPERTINA:

Siamo storie, siamo le storie a cui abbiamo appartenuto, siamo le storie che abbiamo ascoltato. E infatti Maggiani ascolta. Ascolta il fiume di voci che si leva nel canto della nazione che avremmo potuto essere e che non siamo, le voci di un popolo rifluito dentro l’immaterialità della memoria. Si insinua nelle pieghe della vita apparentemente ordinaria dei suoi personaggi e racconta. Racconta di una madre e di un padre che si spengono portando con sé, prima nella smemoratezza e poi nella morte, un mondo di certezze molto concrete: la cura delle cose, della casa, dei rapporti parentali. Rammenta la fatica giusta (e ingiusta) di procurarsi il pane e di stare appresso a sogni accesi poco più in là, nella lotta politica, nella piana assolata quando arriva la notizia della morte di Togliatti. Racconta, allestendo un maestoso teatro narrativo, della costruzione dell’Arsenale Militare: un cantiere immenso, ribollente, dove accorrono a lavorare ingegneri e manovali, medici e marinai, ergastolani e rivoluzionari, cannonieri e fonditori, inventori e profeti, cuoche e ricamatrici, per spingere avanti destini comuni, avventure comuni, speranze in comune. Racconta di come si diventa grandi e di come si fondano speranze quando le speranze sono finite. Mai si era guardato negli occhi di un padre così a fondo per domandare una sorta di muto perdono, più grande della vita. Nella mitica contea di Maurizio Maggiani ci siamo tutti, a misurare quanto siamo stati, o meno, ‘fondatori di nazioni’.

Quanto ha lavorato mio padre per aver lavorato troppo? Dodici, quattordici ore al giorno per quanto, per cinquant’anni? Più o meno. Facendo i conti per bene, avendo cominciato a dodici anni ed essendo andato in pensione a settanta, sono in tutto cinquantotto anni. Più qualcosina ancora da pensionato, lavoretti qua e là per i vecchi conoscenti. Eppure se otto ore vi sembran poche venite voi a lavorar. La sapeva, eccome che la sapeva anche questa. Dunque? Il bisogno. Certo, il bisogno. Ma a lui piaceva anche lavorare. Lavorare bene, lavorare con il signor Trippi, portarsi a casa qualcosa da aggiustare la domenica pomeriggio. Questa grande presa per il culo che il lavoro nobilita l’uomo, che il lavoro rende liberi. C’era scritto alla porta di un campo di sterminio, non sui cancelli del paradiso. E lui ci credeva. Lui e il signor Trippi e tutti quanti loro, i lavoratori, si sono messi in testa di costruire una nazione con le loro mani. Non speravano di farlo, loro ci credevano davvero che l’avrebbero fatto. Ecco:  Vivere di sogni è un’utopia.
Come facessero non lo so, ma era tutta gente che sognava mentre lavorava, e quello che avrebbero fatto con il loro lavoro era la loro utopia. E sono finiti all’Istituto Giuseppe Mazzini, impacchettati nei pannoloni, rincretiniti dal loro lavoro. E più in là del laghetto delle tartarughe non vedono nessuna nazione, non vedono niente perché non c’è niente. Semplicemente non c’è niente. E io sono qui, e sono un niente in mezzo a questo niente, peggio di niente agli occhi di un uomo che ha creduto nelle sue mani. Io, con queste mani che sembrano quelle di un pianista.
È stato così? Che si sono fregati con le loro stesse mani? Non lo so, non lo so, non lo so.
So solo che mio padre è stato un costruttore di nazioni. C’è stato un momento che è stato così. Un momento sorprendente, violento e veloce. Per amor di verità, un momento molto ma molto più violento e veloce e sorprendente di quello che ha portato me e Barry McGuire dalle colline sono in fiore all’ora del fucile. In meno di tre anni mio padre è passato dall’orticello di guerra al Battaglion Lucetti.
Il Battaglion Lucetti
Son libertari e nulla più,
Coraggio e sempre avanti,
La morte e nulla più.
Più forte sarà il grido
Che salirà lassù
Fedeli a Pietro Gori
Noi scenderemo giù.

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“Papà, cantami Mimì. La sapevi tutta quanta. La so anch’io.
La storia mia è breve.
Che malinconia che mi viene solo a dire il nome Mimì. E quanti pianti all’ultimo quadro. Può un uomo piangere per lo struggimento che gli viene da un teatro musicale? Si vede di sì, visto che io ci ho pianto anche l’anno scorso al Carlo Felice. In fin dei conti cosa c’è dentro quella storia, padre mio? Solo della gran dolcezza e della gran disperazione. Tu sai di cosa parlo. Quando mi cantavi Mimì, padre mio, io sentivo. I bambini se ne intendono di dolcezza e di disperazione. Chi se non i bambini? E piangono i bambini, piangono a dirotto di dolcezza e di disperazione. E capiscono tutto, e lo sanno benissimo che bisogna piangere, che non c’è altro da fare.”

Titolo : Il romanzo della Nazione

Autore: Maurizio Maggiani

Casa editrice: Feltrinelli

Anno di pubblicazione: 2015

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